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L’articolo 1 della carta europea dei ricercatori stabilisce che: “Gli Stati membri s’impegnino a compiere i passi necessari per assicurare che i datori di lavoro o i finanziatori dei ricercatori sviluppino e mantengano un

L’articolo 1 della carta europea dei ricercatori stabilisce che: “Gli Stati membri s’impegnino a compiere i passi necessari per assicurare che i datori di lavoro o i finanziatori dei ricercatori sviluppino e mantengano un ambiente di ricerca e una cultura di lavoro favorevoli, in cui gli individui e le équipe di ricerca siano considerati, incoraggiati e sostenuti, e beneficino del sostegno materiale e immateriale necessario per conseguire i loro obiettivi e svolgere i loro compiti. In tale contesto, si dovrebbe accordare particolare priorità all’organizzazione delle condizioni di lavoro e di formazione nella fase iniziale della carriera dei ricercatori, in quanto questa contribuisce alle scelte future e rafforza l’attrattiva delle carriere nel settore della R&S.” Come si conciliano queste esigenze con le condizioni di precarietà, spesso decennali, in cui si trova quasi il 40% dei ricercatori? Lavoratori della conoscenza qualificati, che svolgono la loro attività in un sistema che li costringe in uno stato di perenne insicurezza. Il rilancio della ricerca e, più in generale, del nostro Paese deve passare necessariamente per la valorizzazione di queste risorse professionali. L’azione degli ultimi governi, invece, non ha colto la distanza che ci separa dalle equivalenti realtà europee. Senza una visione, senza una politica per la formazione e la ricerca, hanno espresso solo tagli indiscriminati, funzionali unicamente alle esigenze di cassa del Tesoro. Per decenni, una classe politica incapace di guardare al futuro ha ridotto gli investimenti per la formazione e la ricerca, considerandoli alla stregua della spesa pubblica improduttiva. È arrivato il momento di ribaltare questa impostazione miope, di cambiare le priorità e di metter al centro dell’agenda politica del prossimo governo il rifinanziamento della Scuola, dell’Università e della Ricerca pubblica. Non si tratta solo di questioni di principio. Molti studi empirici hanno dimostrato che le differenze nei livelli di diffusione dei saperi sono alla base delle variazioni di reddito tra i diversi paesi. Basta verificare come i paesi che più soffrono per la crisi (i cosiddetti PIGS – Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sono gli stessi che investono meno nella conoscenza. Se, nell’immediato, i tagli degli investimenti pubblici nei saperi possono contribuire a ridurre il numeratore del rapporto tra deficit e PIL, e quindi a favorire il pareggio di bilancio, nel medio periodo finiscono per danneggiarlo, visto che causano una diminuzione del denominatore assai maggiore.

collana: Varia, bic: jn, 2014, pp 200
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isbn: 9788849841237