Francesco Forte, Michela Mantovani

Manuale di Economia e Politica dei Beni Culturali

Cartaceo
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L’economia dei beni artistici e culturali è oramai una scienza abbastanza sviluppata. Viene insegnata in varie università, negli Stati Uniti, in vari paesi europei e anche, non secondariamente, in Italia, ove essa ha, ovviamente,

L’economia dei beni artistici e culturali è oramai una scienza abbastanza sviluppata. Viene insegnata in varie università, negli Stati Uniti, in vari paesi europei e anche, non secondariamente, in Italia, ove essa ha, ovviamente, una particolare ragion d’essere data la grande importanza del patrimonio artistico culturale italiano. Vi sono riviste, libri, saggi su vari argomenti teorici e applicativi, spesso discutibili dal punto di vista della teoria più scaltrita ed efficace, perché troppo legati all’economia del benessere tradizionale, comunque utili per costruire un ponte con le discipline umanistiche e tecnologiche che trattano di questi temi nelle Facoltà storico letterarie e in quelle di architettura e di ingegneria. Ambiti disciplinari, come quelli delle arti figurative, della musica, del teatro, dell’editoria, della cinematografia e della televisione hanno attratto l’attenzione. L’analisi dell’economista è facilitata e sollecitata dal fatto che accanto alla presenza dell’operatore pubblico, in essi vi è un ampio ruolo del mercato e vi sono, sul lato dell’offerta, vere e proprie imprese, che operano con organizzazioni permanenti. è carente, invece, l’attenzione degli economisti a tematiche molto importanti, come quella dell’archeologia, dei beni storici e architettonici, dei beni librari e di istituzioni come i musei e le biblioteche. Inoltre gli studi, a volte raffinati, di tematiche singole, non sono sfociati, sino ad ora, in una trattazione sistematica che si basi sulla più moderna teoria dell’economia pubblica, che consideri in modo adeguato, il collegamento con tale teoria, le istituzioni e le tecniche operative e il ruolo del mercato e che tratti, almeno a livello di impostazione, l’insieme dei beni e servizi culturali pubblici, semi pubblici e privati. E che sia non solo astratta, qualitativa, ma anche quantitativa.
Perché questa ricerca, perché un libro di ottocento pagine, su questi temi?
I beni culturali hanno un tratto comune che li fa differire da altri beni non di mercato, di quasi mercato o di mercato, sono beni dell’informazione intrinsecamente meritori. Ciò non nel senso paternalistico e banale con cui questo termine è spesso impiegato ad indicare beni che lo stato o una élite intellettuale ritiene meritevoli di tutela e valorizzazione, ma in un senso intrinseco, più profondo, che riguarda l’utilità soggettiva e che è quindi coerente con una impostazione basata su principi di libertà individuale di pensiero e di espressione, quale quella qui accolta, nel quadro della impostazione della teoria neoclassica italiana dell’economia pubblica, ripresa dalla scuola di“public choice”. Per farlo intendere, mi sia consentita una citazione letteraria.
Quando Dante incontra Ulisse nel Canto XXVI dell’Inferno non vede una persona ma una fiamma,
“Lo maggiore corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando
Pur come quella che vento affatica
Indi la cima qua e là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Gittò voce di fuori e disse quando”.
E qui la fiamma che parla come una persona fatta di fuoco comincia il suo racconto di esplorazioni, lontano da casa, lontano da Penelope e dal vecchio padre, ma anche via da Circe, dai piaceri consumistici“nell’alto mare aperto” per inseguire la conoscenza del pianeta, sino ed oltre le colonne d’Ercole, perché, come egli dice ai suoi marinai,
“considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e conoscenza”.
Perché Ulisse abbandona ogni cosa, la famiglia, gli affetti e gli agi della casa e i piaceri del mondo, per cercare di andare“diretro al sol, del mondo senza gente”? E soprattutto perché nonostante i rischi e le pene non interrompe il suo viaggio, ma lo continua sino all’estremo rischio finale, per anni ed anni instancabilmente?
“Io e i compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
Ov’Ercole segnò li suoi riguardi
Acciocché l’uom più oltre non si metta”.
Il demone che lo spinge, tradotto in termini economici, è una utilità marginale crescente, in luogo di quella decrescente che governa i bisogni materiali. Più conosce, più gli si ampliano gli orizzonti e aumenta il suo desiderio di conoscere, di esplorare. La fiamma del conoscere aumenta, con l’aumentare della conoscenza, non c’è la sazietà, ma la perpetua insoddisfazione. Dunque, Ulisse continua il suo viaggio nonostante il crescere degli anni, suoi e dei suoi compagni, non pensa come un normale funzionario alla tranquillità della pensione, perché l’utilità marginale del suo impegno è crescente, non decrescente,“crescit eundo”. Questo è il paradigma che, in questo libro abbiamo descritto come quello di Socrate insoddisfatto in confronto al giocatore di lippa2 soddisfatto. Socrate non avrebbe voluto scambiare il suo posto con quel giocatore di lippa soddisfatto, benché sentisse l’insoddisfazione che gli dava il fatto di non essere mai pago di sapere, perché ogni conoscenza in più spostava in avanti il suo orizzonte conoscitivo ed egli non giungeva mai al termine. A voler essere raffinati, si deve precisare che anche il diagramma dell’utilità marginale del giocatore di lippa, all’inizio è crescente, perché man mano che impara questo gioco vi acquista maggior destrezza e prova più soddisfazione, ma quando è arrivato al massimo, essa decresce, via via che egli gioca e, dopo qualche ora, è stanco di farlo. Va a cena, senza più pensarci. Quando riprende il gioco nei giorni seguenti, parte sempre dallo stesso livello iniziale di utilità e questa poi discende, come di consueto. Per Socrate no, smette di pensare, che è tardi, solo perché non può fare diversamente, ma la sua utilità marginale, invece che essere più bassa che all’inizio del gioco è più alta. è insoddisfatto, più che all’inizio. Sembra irrazionale. Ma è un paradosso solo in apparenza, perché se è vero che l’utilità marginale di Socrate è salita, a sera, rispetto all’inizio del giorno e il pungolo del bisogno, appagandolo, è aumentato, a differenza del giocatore di lippa, privo di gravi pensieri, è anche vero che in questo modo Socrate riesce ad avere un’utilità totale molto più grande di quella del giocatore di lippa. Ho sostituito Ulisse, fiamma umana, a Socrate, nel paradigma economico che riguarda i beni culturali perché la sua sete di conoscere si amplia esplorando. E segue un programma, come l’archeologo, allo scopo di ottenere un risultato, un“prodotto”.
In effetti il paradigma dei beni culturali come beni meritori, che presentano la caratteristica di generare una utilità marginale crescente, perché ampliano la prospettiva della conoscenza o della sensibilità artistica, può essere visto sia sul lato della domanda che sul lato dell’offerta. Il visitatore dei musei, l’amatore di concerti, man mano che ne fruiscono ampliano la propria capacità di apprezzare questi beni meritori, che migliorano chi ne fa uso. Ma il paradigma può riguardare anche il protagonista dell’offerta, se non è un mero funzionario“bruto”, ma“segue virtute e conoscenza”. Mediante il suo ingaggio nella ricerca artistica e culturale egli sviluppa la sua capacità e la sua sete di creare e ricercare. E non è mai pago. Smette solo quando incontra le sue colonne d’Ercole. Che, per lui, sono il venire meno dei fondi a disposizione e la fine stessa dell’esistenza.
Il paradigma di Ulisse che, a differenza di Socrate, non filosofa con pochi discepoli che lo ascoltano, comporta un apparato, una organizzazione, che egli deve persuadere a ragionare come lui, a percepire questi beni, come beni superiori, per i quali vale un alto impegno continuativo:
“Li miei compagni feci’io si aguti
Con quest’orazion picciola al cammino
Ch’appena poscia li averi tenuti”.
Ma era Ulisse, secondo Dante. Il potenziale mecenate o sponsor privato o pubblico dei beni culturali è più difficile da convincere, soprattutto quando l’impresa ha un rischio elevato, come quella di Ulisse e dei suoi compagni ma non persegue, come questa, un obbiettivo che venga facilmente percepito.
E poi, come si legge in Parfit,“Ragione e Persone”, ciascuno di noi è un soggetto diverso nel tempo e l’io presente ha un misto di egoismo e altruismo verso l’io futuro, che non è detto si concluda a favore del futuro. Mentre l’io futuro ha dei comportamenti che non sono necessariamente quelli che ha stabilito l’io presente, poiché può non condividerne le preferenze o non accettare una eredità impegnativa, che esso gli ha lasciato. Nel caso dei beni ambientali, è più facile eroderli oggi, in relazione a benefici immediati che astenersi dal danneggiarli, con una perdita di vantaggi attuali e un beneficio per gli io futuri: noi stessi in un tempo futuro, e gli altri di generazioni passate e successive, che si troveranno a vivere in quel futuro.
Nel caso dei recuperi e restauri di beni culturali e degli scavi archeologici la questione è più complicata: il farli al presente ha un costo immediato, mentre il beneficio si protrae nel tempo, ma questa proiezione nel futuro comporta una disponibilità di risorse economiche e di atti per la loro“conservazione”, per impedirne o rallentarne al massimo il degrado nel tempo che sono un impegno oneroso per gli io futuri cui essi non necessariamente vorranno o potranno prestare fede. è un tema simile a quello degli investimenti in opere pubbliche, che siano finanziati con debito pubblico e diano benefici in futuro. Anche in questo caso, il calcolo che facciamo oggi riguarda costi e oneri degli io futuri. Ma vi è una differenza. Quando noi decidiamo oggi di fare un’opera pubblica, che sarà pronta in futuro, per la quale accendiamo un debito pubblico ora, proiettiamo sul futuro due nostre decisioni, che gli io futuri subiranno. Avranno un beneficio dall’opera, da cui potranno trarre mezzi per il suo finanziamento, avranno un onere per questo, che potrebbe essere eccessivo rispetto al beneficio e venire disatteso. Se finanziamo l’opera con imposte, può darsi che il futuro beneficio non sia grande, ma l’onere del finanziamento lo subiscono gli io attuali e il rischio che esso sia disatteso non si corre. Gli io futuri avranno l’uso del bene e i costi della sua manutenzione. Forse non vorranno spendere abbastanza per essa. Ma l’opera, andata in disuso, potrebbe essere rifatta, nel caso che essi o gli io successivi si pentano dell’averla lasciata deperire. Nel caso dei recuperi di beni culturali e degli scavi archeologici, che facciamo oggi, finanziati con imposte, proiettiamo sul futuro un onere di conservazione che potrebbe essere disatteso, se troppo gravoso, o per incuria, con un danno irreversibile. Se si passa al futuro un impegno che gli io futuri non vorranno o potranno sostenere, ad esempio, gli scavi avranno avuto un effetto contrario a quello desiderato, perché il patrimonio archeologico nazionale anziché essere aumentato, sarà stato diminuito. Se quei beni rimangono nel sottosuolo o sul fondo del mare o dei laghi, essi potranno essere recuperati e conservati in futuro, con le tecnologie probabilmente più perfezionate e i benefici economici presumibilmente maggiori, allora ottenibili da visitatori e mecenati. Se noi li traiamo alla luce oggi e gli io futuri li lasceranno deperire, la scelta sbagliata che abbiamo fatto oggi sarà irreversibile cioè tale per cui, una volta che ci si sia pentiti, non si può tornare allo status quo ante, pagando un costo.
D’altra parte noi abbiamo dei doveri di conservazione di ciò che è stato tratto alla luce dagli io passati. E anche queste sono scelte irreversibili. E abbiamo anche degli interessi a restauri di reperti rinvenuti in stato di degrado, sia per non perderli, sia per obbedire a uno stimolo di conoscenza, che riguarda la ricostruzione della“cultura” rappresentata da quei manufatti e dalle loro alterazioni ad opera dell’uomo. E, più ampiamente, i costumi e la cultura del gruppo umano da cui derivano.
E a questo punto è d’uopo fare riferimento a un secondo paradigma, quello goethiano, della missione teatrale di Whilelm Meister, anche esso alimentato di un fuoco instancabile. I beni culturali non sono come giacimenti di materiali, che basta solo reperire e mettere assieme e separare, come le risorse minerarie o agricole. Il personaggio goethiano è un giovane di una agiata famiglia borghese, dedita a un lucroso commercio all’ingrosso, con molti clienti sparsi per i vari stati della Germania, che si mette in viaggio per riannodare le relazioni con i clienti e riscuotere da essi i crediti, a saldo delle merci loro inviate. Ma ben presto è attratto da una piccola, scalcinata compagnia teatrale viaggiante, che va da un luogo all’altro con scarso successo, vi si aggrega, ne diventa il finanziatore, l’organizzatore, l’autore dei testi, il direttore e il principale attore. Con mezzi modesti, attori ed attrici mediocri, Whilelm Meister riesce comunque ad appassionare il pubblico e ad attrarre importanti mecenati che ospitano e finanziano la compagnia. Nonostante le disavventure, egli dimentica la sua professione originaria e si dedica al teatro e vive per il teatro. Riesce a trasfigurare la realtà delle recite, pur con mezzi modesti, palcoscenici di fortuna, una compagnia con attori e attrici di poco talento e superficiali, che litigano fra loro. Ed ha successo. Che cosa spinge Guglielmo, perché sente quella del teatro come una missione, perché la trasfigurazione? In primo luogo questa è nella natura del teatro. Quelle poche tele, su quel piccolo palcoscenico, quelle frasi a volte convenzionali, del dramma, per lo spettatore, sono un percorso nella realtà virtuale. Ma lui riesce a creare il mito, perché per lui il teatro è un mito. Reca il ricordo di quando, bambino, la madre gli regalò , per le feste, una scatola di burattini, con cui lui cominciò a fare teatro. Quelle piccole figure di pezza di vari colori, ciascuna raffigurante un personaggio diverso, rette dai fili di metallo, lui le muoveva, in un mondo immaginario, trasfigurandole. Il ricordo di quella scatola magica, lo aveva accompagnato nella giovinezza, aveva capito che la rappresentazione teatrale è una trasfigurazione. E la cercava. Si sentiva attratto da questa capacità di creare.
Se l’economista che si occupa di beni culturali riesce a essere come Whilelm, con i suoi burattini di pezza di vari colori, a creare o meglio ricreare il mito dai beni di cui si occupa allora vi è un salto di qualità, quella realtà morta, diventa viva, attrae il pubblico, i mecenati, gli sponsor. Il problema delle dure scelte fra presente e futuro, fra beni di Socrate e beni di Santippe si allenta.
Il mito, come nella vicenda teatrale di Whilelm Meister, attrae mecenati. Ma contano anche i diritti di proprietà sui beni culturali, quelli dei privati singoli e fondazioni che li amano, quelli dei soggetti pubblici locali che vi si sentono più coinvolti del governo generale. Sfortunatamente l’economista ha capacità limitate, con i burattini dei suoi concetti economici, quali i beni meritori, i diritti di proprietà, le economie e diseconomie esterne, i beni quasi pubblici o quasi privati, il calcolo dei benefici con metodi diversi da o integrativi di quelli del ricavo di mercato, i beni culturali come beni dell’informazione con qualità artistiche, storiche, di conoscenza culturale ed edoniche e le connesse determinanti del loro valore e così via. Con questo nostro libro, a quattro mani, che non è solo un testo sistematico, ma anche un libro di ricerca e stimolo alla ricerca, ci siamo messi nell’impresa, quasi alla stesso modo di Whilelm Meister. Io, l’anziano professore, part time, rispetto ad altre ricerche, Michela Mantovani, la giovane ricercatrice, full time, trascurando altri filoni più tradizionali di studio dell’economia. Come Whilelm con i suoi eterogenei spettatori, speriamo di creare nel pubblico variegato, che ci leggerà, un’ansia di miti conoscitivi. Come quell’altro polo, nello spazio, di cui Ulisse andava alla ricerca varcando le colonne d’Ercole:
“E volta nostra poppa nel mattino
De remi facemmo ali al folle volo,
Sempre acquistando dal lato mancino
Tutte le stelle già dell’altro polo
Vedea la notte e il nostro tanto basso
Che non sorgea di fuor del marin suolo”.
(2004) pp. VIII+858′