Un importante studio di Amedeo Toraldo (Il Lametino)

di Vincenzo Villella, del 26 Febbraio 2016

Da Il Lametino di gennaio-febbraio 2016

Dal basso medioevo al XVIII secolo la gelsi-bachicoltura e la produzione della seta in Calabria hanno avuto un ruolo di primo piano nell’economia regionale, non essendoci ancora la concorrenza delle regioni settentrionali e dei paesi esteri. In quel lungo arco di tempo la sericoltura si impose a Catanzaro dove la produzione della seta è stata una vera e propria arte, ossia – come scrive Augusto Placanica – “un complesso di importantissime strutture economico-giuridiche che coinvolgevano e regolamentavano tutto un universo economico, sociale, culturale”.
Tante le ipotesi, teorie e tradizioni sull’origine della lavorazione della seta nella nostra regione: Ottone da Frisinga, Michele Vocino, marincola San Floro, il D’Amato, il Vivarelli e l’Alvisi, Tescione e altri.
Alcune sono chiaramente impossibili da accettare per evidente incongruenza storica e per mancanza di documenti. Tra le ipotesi plausibili ci sarebbe quella di alcuni storici i quali sostengono che non ci sarebbe nessuna difficoltà ad affermare che furono i Saraceni ad introdurre in Calabria la coltivazione del gelso, la bachicoltura e la trattura della seta. Tuttavia si tratterebbe anche in questo caso di ipotesi non suffragate da documenti.
Certamente un ruolo importante nello sviluppo dell’industria serica e della tintoria l’hanno avuto gli ebrei. È certo comunque che la bachicoltura era presente in Calabria in un periodo anteriore a Ruggero II (1130-1154) e che sul finire del secolo XIII l’industria serica calabrese cominciò a guadagnare i mercati italiani. Grandi protettori ne furono gli Angioini, ma lo sviluppo dell’arte della seta fu maggiore in epoca aragonese in tutta la regione, soprattutto a Catanzaro, anche perché i sovrani protessero l’industria catanzarese con frequenti concessioni di privilegi. Catanzaro fu il centro più importante della produzione serica in Calabria tanto che con diploma del 30 marzo 1519 fu concesso alla città il Consolato dell’arte della seta, il primo nel Regno dopo quello di Napoli fondato da Ferdinando I nel 1465.
Leggiamo negli Annali Civili del Regno delle Due Sicilie dell’anno 1833 (vol.3, fasc. V) nell’articolo “L’industria della setanei domini di qua del faro”:
Catanzaro mena vanto di avere avuto piantagioni di gelsi e manifatture di seta fin dall’undicesimo secolo ai tempi di Roberto il Guiscardo. E sebbene tutti quasi i più accreditati scrittori fossero d’accordo nell’affermare che Ruggero di Sicilia, avesse per primo portato nel Regno l’arte di fabbricare le sete nella metà del secolo duodecimo, pure non deve sembrare al tutto privo d’ogni verosomiglianza quello che i catanzaresi pretendono, quando si consideri il traffico grande che negli antichi tempi si faceva tra le Calabrie e la Grecia, e si ricordi quel pallio di seta da Arrigo Imperatore donato alla chiesa di Norimberga, dove tuttora si conserva, e che da Ruggiero fu fatto fare dieci anni avanti che avesse egli mosso guerra contro l’imperatore di Costantinopoli.
Certa cosa nondimeno è che al tempo degli Svevi e degli Angioini erano già famosi i tessuti di Catanzaro, e principalmente i suoi tessuti e damaschi. E narrasi che quella città avesse fatto dono a re Ladislao del paramento per una camera insieme con le cortine per un letto e per quattro finestre tutte di velluto verde di sì leggiadro lavoro che parve cosa magnifica e stupenda.
Tanto furono pregiate le manifatture catanzaresi che Alfonso primo, per maggiormente aiutarle, concedette a quei cittadini che per loro non si pagasse l’imposta delle sete, la quale era di cinque grana per ciascuna libbra; e Ferdinando d’Aragona, accordando alla città di Napoli quel privilegio di dover sola tenere i telai dove s’intessevano le sete, esclusene Catanzaro la quale poteva, come per lo innanzi, avere i telai de’ velluti e de’ damaschi.
Queste concessioni furono più volte riconfermate e da Alfonso Secondo e da Federico di Aragona e dall’Imperatore Carlo Quinto e da Filippo Secondo e da Filippo Quarto re di Spagna. ma le manifatture, che prima quivi tanto fiorivano, andarono poi a mano a mano decadendo, e finalmente i tremuoti e le altre calamità, che verso la fine del passato secolo e nei primi anni di questo in sì misero modo travagliarono quelle contrade e l’esser ormai i damaschi, i quali facessero ancora fede di quelle manifatture che nel suo seno, in tempi migliori prosperavano.
Cento anni addietro aveva essa quattrocento telai, adoperava per filare le sete e tesserle oltre a quattromila persone, e la quantità della seta che consumavasi sommava a centomila libbre circa. Ora non ha se non soli otto filatoi dove si lavora solamente in alcuni mesi dell’anno; manca di tutti gli ordigni necessari per far le sete organzine; tiene soli cinquanta telai tra quelli debbponsi annoverare quelli del velluto e del damasco; e di seta consumasi poco più di cinquemila libbre con qualche altro centinaio di libbre di calamo o di cotone. Tanto questa industria delle sete in quelle parti vedesi invilita.
Non è così pel rimanente delle Calabrie, dove, ora sono pure cento anni, i contadini ne’ loro poveri abituri educavano i bachi e portavano ne’ mercati a vendere i bozzoli, i quali dai mercanti stranieri e soprattutto da quelli di Lione si comperavano a vilissimo prezzo.
Oggi in quella provincia, di cui principal sede è Cosenza, di rado potresti trovare un contadino che li vendesse; dappoiché coloro i quali tengono i filatoi e fanno soli il traffico delle sete posseggono tutte quasi le piantaggioni de’ gelsi. Da essa provincia si ha in ogni anno oltre a trecentomila libbre di seta filata di varie qualità, le quali, generalmente parlando, si può dire essere tre: quelle così chiamate appalte o appalte a girelle, che sono varie specie di sete brute, e le organzine che, introdotte dapprima nell’orfanotrofio di Cosenza per opera del signor Vincenzo telesio che fu amministratore di quel luogo, veggonsi ora fatte molto comuni, e in essa città di tali sete e di una qualità perfettissima ci ha una fabbrica a vapore. Possiamo affermare che di sete organzine in Cosenza e ne’ luoghi vicini si hanno oltre a trentamila libbre ogni anno: quantità che, considerando come siffatta industria vieppiù sempre progredisce in quei luoghi, è a credere che debba farsi con l’andar del tempo maggiore; tanto più se coll’esempio dei distretti di Cosenza e di Paola possa questa industria delle sete meglio fiorire nei distretti di Castrovillari e di Rossano, dove a dir vero è troppo poco curata.
Il traffico, che in quella provincia si fa, è solamente di sete filate, ché non ci ha alcuna manifattura di tessuti; se non che in qualche casa privata trovi talvolta un telaio dove dei grossi fili tratti da quei bozzoli, nei quali i bachi si sono trasformati in farfalle, e di quelli più rozzi, che si hanno nel trarre la seta, si fanno coltri di vari colori e non prive di eleganza e drappi, di che le contadine usano per cucirne le gonne le quali vestono nei giorni di festa.
Lo stesso che nella provincia cosentina abbiamo veduto scorgersi nell’estrema parte della Calabria e principalmente nei dintorni di Reggio ove più che in ogni parte del regno fiorentissima è l’industria della seta.”
Un contributo importantissimo alla conoscenza della sericoltura in Calabria è venuto dal recente studio di Amedeo Toraldo “L’arte della seta a Catanzaro tra il Mezzogiorno e l’Europa nel sei e setteciento” (Rubbettino 2015). Grazie al rinvenimento presso l’Archivio di Stato di Napoli dello Statuto dell’Arte della seta di Catanzaro del 1718, Toraldo offre una visione del tutto nuova sulla produzione dei drappi di Catanzaro e sulla loro commercializzazione, evidenziando che nei primi decenni del XVIII secolo esisteva ancora una espansione delle tessiture catanzaresi. Nella prima parte della sua ricerca Toraldo illustra l’evoluzione dell’organizzazione dell’Arte della seta in età moderna fino al XVIII secolo. Nella seconda parte vengono illustrate le varie lavorazioni della seta nelle manifatture catanzaresi, il sistema di produzione, i mercati, il mondo del lavoro. Ecco allora l’arte della seta nei “banni” cinque-secenteschi, i “magistri” e i “mercatores” iscritti all’Arte nei secoli XVII e XVIII, gli artigiani del XVIII secolo (maestri di velluto, maestri filatori, maestri tintori ecc.) e poi i metodi e le tecniche di lavorazione, a partire da quella della trattura (ossia dell’estrazione del filo di seta greggia dai bozzoli) cui erano addetti i “patellari”; la filatura o torcitura, la tintura, la tessitura.
Al ciclo di lavorazione della seta partecipavano i maestri filatori, tintori e tessitori di cui Toraldo, attraverso lo statuto del 1718, fornisce anche i nominativi e i compensi oltre ai prezzi dei filati.
Molto interessante il capitolo sulla partecipazione delle donne all’attività serica, ossia le addette alla “coglitura”, le “maestre di seta per cuscire” e le “maestre di zagarelle”, attività che richiedevano una precisa specializzazione. Da questa partecipazione femminile – scrive Toraldo – si deduce come la seta a Catanzaro costituisse una risorsa economica anche della popolazione femminile. Al livello più basso tra i lavoratori della seta c’erano i discepoli, giovanissimi lavoratori, che lavoravano a fianco dei “mestri” con un rapporto di apprendistato formulato con “patto scritto”.
Toraldo descrive poi il sistema di produzione, il mercato delle esportazioni dei drappi catanzaresi fuori della Calabria e anche all’estero. Le esportazioni extrarehgionali interessavano diverse città, ma soprattutto Napoli da dove i drappi venivano smerciati verso altri centri del regno ed extra regnum, tra cui lo Stato della Chiesa e alcuni paesi esteri.
Scrive a tal proposito Toraldo: “Il fatto che le tessiture di Catanzaro riuscissero a ritagliarsi fette di mercato persino nella stessa Napoli, città che in età moderna divenne il maggiore centro di manifattura serica del mezzogiorno e tra i principali della penisola, sta a significare che l’affermarsi dei drappi catanzaresi era conseguenza non soltanto del mero espandersi del consumo dei generi di lusso, ma anche della bontà delle produzioni realizzate nel capoluogo della Calabria Ultra e del successo che esse riscuotevano tra i consumatori”.
A conferma del successo di mercato delle seterie catanzaresi Toraldo ricostruisce l’elenco degli illustri acquirenti. Si trattava – scrive riferendosi al XVII secolo – di una “nutrita schiera di maggiorenti della società napoletana, composta da elementi di spicco della nobiltà, da famosi togati, alti ecclesiastici”. Inoltre “prelati inseriti nelle istituzioni dello Stato della Chiesa e finanche “porporati” residenti a Roma. Questo successo era dovuto soprattutto alla qualità e alla fama di cui i manufatti serici catanzaresi godevano occupando una posizione di prestigio nel mercato italiano dei drappi, Le esportazioni dai fondaci di Catanzaro avvenivano tramite l’intermediazione dei mercanti locali, ma anche non calabresi, spesso campani. Le spedizioni avevano come acquirenti principali grossi mercanti di Napoli, Cava, Salerno, tramite i quali i drappi serici raggiungevano i mercati della Capitale e di altri centri campani “probabili luoghi di smercio dei drappi che verso altri territori del Mezzogiorno e quelli localizzati extra regnum”.
Le drapperie dirette fuori regione venivano imbarcate dal porto dell’odierna Castiglione marittimo (già del feudo dei d’Aquino), da Pizzo e da Sant’Eufemia. Come si vede, l’industria della seta caratterizzava la vita economica e sociale di Catanzaro ed è stata per la città – conclude Toraldo – nel corso di diversi secoli fonte di benessere e motivo di spiccata identita.

di Vincenzo Villella

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