Perché è attuale la lezione di Hayek sul federalismo europeo (Formiche.net)

di Corrado Ocone, del 13 Luglio 2016

Da Formiche.net

Non mi fido dei catastrofisti che si sono messi all’opera, con un insopportabile conformismo di vedute, il giorno dopo il voto sul Brexit. Quel che sarà del Regno Unito e dell’Unione Europea nel prossimo futuro non è dato sapere, dipendendo da tante variabili e non ultimo dalle cosiddette «conseguenze inintenzionali» delle azioni umane. Né, d’altro canto, si può accettare il dispositivo democratico solo quando corrisponde ai nostri desideri. D’altronde, chi se non è il popolo sovrano, come retoricamente si dice, deve decidere a quale comunità politica egli debba appartenere?
Il forte scossone dato al tavolo da gioco dagli elettori d’oltremanica sollecita però ancora di più la riflessione collettiva su quel che è, o è diventato, il «progetto europeo». E, quindi, su quali strade sarebbe più opportuno intraprendere. Un contributo significativo a questa fondamentale riflessione giunge proprio in questi giorni dalla pubblicazione, per la prima volta in italiano, del saggio di Friedrich von Hayek intitolato: Le condizioni economiche del federalismo fra Stati (Rubbettino, pagine 165, euro 12). Scritto nel 1939 e poi ripubblicato dall’economista austriaco in un’importante raccolta del 1946, il testo ci aiuta, prima di tutto, a riordinare le idee, grazie anche agli ottimi saggi che lo corredano: l’introduzione di Federico Ottavio Reho (a cui si deve anche la traduzione) su «Federalismo hayekiano e integrazione europea» e la postfazione di Flavio Felice.
Dal libro si apprendono molte cose, alcune delle quali possono risultare anche sorprendenti agli occhi di chi si è fermato al dibattito giornalistico di questi giorni o a certi luoghi comuni. Tanto per cominciare, l’idea dell’integrazione europea, ovvero di un’Europa come stato federale, sul modello degli Stati Uniti d’America, non è nata alla fine della seconda ma della prima guerra mondiale. I tanto osannati «Padri fondatori», da questo punto di vista, sono un po’ meno Padri, o quanto meno raccoglievano i risultati di discussioni che avevano raggiunto una loro forza e compiutezza già negli anni Trenta, quando era evidente che il liberalismo ottocentesco aveva ceduto il passo alle forze opposte e speculari del nazionalismo e del socialismo (che i totalitarismi avevano in qualche modo unito). Forze che si muovevano inesorabilmente verso la guerra, fra le nazioni e all’interno di esse, e non a quella pace che un patto federale fra Stati avrebbe potuto garantire.
Il fine del federalismo è, infatti, proprio la pace. Che, d’altronde, è la condizione in cui è possibile preservare le libertà dell’individuo che sta a cuore ai liberali. Non è un caso che, con il saggio ora pubblicato, Hayek si inserisse nel dibattito, facendo sostanzialmente sue le posizioni del suo amico e collega della London School of Economics, nonché anche lui Premio Nobel per l’economia, Lionel Robbins. Lo Stato federale europeo, e in tendenza addirittura mondiale, sarebbe stata la forma di governo che sola avrebbe potuto garantire, con la pace, il pluralismo dei centri di poteri e della società e la libertà dei singoli. Bisognava, in sostanza, superare da una parte il caos anarchico e tendenzialmente belligerante degli Stati sovrani indipendenti; dall’altra l’inquietante ipotesi di un grande Leviatano, cioè di uno Stato europeo o mondiale unico. Lo Stato federale si sarebbe fondato sulla libertà di circolazione di beni, uomini e capitali, che è quella che analizza qui Hayek; sull’unificazione monetaria e di bilancio, su cui Hayek del nazionalismo monetario non avrebbe potuto non concordare; su un’unica politica estera e di difesa sul modello statunitense. E su nulla più, o quasi. Quando l’Ue cominciò a muovere i primi passi proprio come «comunità economica europea», proprio cioè con lo scopo di creare un’area di libera circolazione contro ogni protezionismo o monopolio statale, Hayek non ebbe a obiettare. Anzi, sull’argomento quasi mai più ritornò.
Il fatto è che ci si muoveva, in un certo senso, lungo la linea tracciata nel saggio del 1939. Si può perciò dire che la Cee, come allora si chiamava, aveva, e ha poi sempre conservato, anche un’anima hayekiana e liberale. Anche se di un dirigismo liberale e liberista che, presente in un certo Hayek (Oakeshott parlava del «piano per abolire ogni piano»), è andato sempre più estendendosi nella realtà operativa europea entrando in rotta di collisione, a mio avviso, con l’elemento spontaneistico di cui pure Hayek è stato sempre strenuo difensore. Il fatto è che però, come scrive con precisione l’autore dell’introduzione, l’integrazione europea è venuta costruendosi su un doppio binario: all’anima hayekiana e liberale si è affiancata da subito anche un’anima interventistica e dirigistica (e non nel senso del dirigismo liberista) che ha fatto capo ideologicamente a Monnet e politicamente a Schumann). Di tutt’altra pasta è infatti questo federalismo (come d’altronde anche quello, oggi tanto decantato, fra il democratico-radicale e il socialista, di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli). il primo tipo di «integrazione europea» difende «una federazione minimalista, democratica e decentralizzata, mentre la seconda reca la marca inconfondibile dell’elitismo tecnocratico e dirigista tipico del suo ispiratore».
La mia impressione è col tempo questa seconda anima abbia non solo preso il sopravvento, ma anche offuscata la prima. E che soprattutto la legislazione abbia preso il sopravvento in vista di un’«armonizzazione» che non può realizzarsi certo dall’alto ma dovrebbe essere il frutto di una spontanea evoluzione dei popoli che la libera circolazione delle merci e delle persone, e anche una corretta educazione (che in ottica liberale non può che essere auto-formazione), alla fine finisce per agevolare. Il compito è sempre più difficile, per il concorso di vari altri elementi che remano contro un’Europa federata in ottica liberale: penso al diffondersi del «politicamente corretto» che mina alle radice certi valori occidentali e «cristiani» (come li chiama opportunamente Flavio Felice) a cui non si può rinunciare in ottica liberale; oppure alla forza che ancora hanno, pure in un periodo di crisi, le politiche welfaristiche, le quali, non va dimenticato, hanno il «pregio» di prestarsi a meraviglia ad assecondare il compito paretianamente primo di ogni burocrazia, e quindi anche di quella europea (ormai amplissima), cioè l’autoconservazione e la centralizzazione delle decisioni. Il compito è difficile, ma il progetto europeo nemmeno gode buona salute. È giusto criticarlo, anche aspramente, e anche demolirlo in certi aspetti. Ma avendo sempre ben presente quale deve essere l’obiettivo finale auspicabile per un liberale, non è certo il ritorno al sovranismo nazionalistico, il merito di Hayek e del suo piccolo, grande scritto del 1939 è di ricordarcelo anche e soprattutto oggi.

di Corrado Ocone

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