Occultare l’orrore (Il Sole 24 Ore)

di Emilio Gentile, del 13 Ottobre 2014

Giuseppe Ghigi

Le ceneri del passato

Il cinema racconta la Grande guerra

Da Il Sole 24 Ore del 12 ottobre

Cento anni fa, dopo l’inizio della Grande Guerra, in tutte le potenze coinvolte nel conflitto, il cinema «mise ovunque l’elmetto patriottico e si adeguò alle esigenze della propaganda», come ha scritto il critico cinematografico Giuseppe Ghigi, per esaltare la propria patria, glorificare i propri soldati al fronte, incitare il proprio popolo a sostenere lo sforzo bellico, e demonizzare il nemico.
Anche in un Paese neutrale, come gli Stati Uniti, fin dal 1915 ci furono registi che si misero all’opera per promuovere l’intervento americano, come John Stuart Blakthon, che nel film The Battle Cry of Peace, prodotto nel 1915, rappresentava la distruzione dei grattacieli di New York da parte di una potenza nemica, facilmente identificabile con la Germania. A esso si contrappose nel 1916 il film pacifista Civilization di Raymond B. West, dove per la prima volta apparve in cinematografia la figura di Cristo che invocava alla pace un’umanità in preda alla follia della guerra. L’anno dopo gli Stati Uniti entrarono in guerra, e le cineprese di Hollywood divennero arma di combattimento, come lo erano da tre anni nel vecchio continente.
La rivista inglese «Star» affermava nel 1916 che la cinematografia testimoniava la realtà della guerra perché il cinema «non descrive, rivela. Non rivela tutto, ma ciò che rivela è vera realtà». In realtà, osserva Ghigi, il cinema durante il conflitto si preoccupò «di occultare più che di rivelare: si vede solo ciò che il potere militare vuole». Il cinema rappresentava i soldati, la trincea, il combattimento in una narrazione epica ed eroica, dalla quale era ovviamente assente il fragore terrificante dei bombardamenti, essendo il cinema muto: ma era escluso anche l’orrore quotidiano dei corpi martoriati, mutilati, bruciati dai gas o disintegrati e sparpagliati in pezzi sanguinanti. Il cinema esaltava la potenza tecnologica delle armi moderne, ma occultava la carneficina di massa che esse producevano; narrava storie patetiche di singoli protagonisti, mentre l’individualità del soldato era annullata nell’anonimato di una guerra di massa.
Non solo la censura ostacolava la rappresentazione cinematografica della vera realtà. Era anche tecnicamente impossibile rappresentare col cinema l’essenza della guerra – la battaglia – nel momento in cui avveniva, perché troppo ingombranti erano le cineprese e troppo grande il pericolo di morte per gli operatori. Inoltre, come osservò un cameraman tedesco, era molto difficile «riprendere scene di battaglia anche perché il momento dell’attacco è sconosciuto e tenuto segreto ai cineoperatori». Di conseguenza, come scrisse nel 1919 il regista Piero A. Gariazzo, si pensò di «fare coi soldati stessi delle manovre guerresche, simili a quelle che dovrebbero essere la guerra, ma in condizione favorevoli per la riproduzione». Così avvenne nel film The Battle of the Somme, girato nel 1916 e proiettato in Inghilterra con grande successo: la scena dei soldati inglesi che saltano fuori dalle trincee per andare all’assalto fu girata con una messa in scena da parte di soldati veri. Lo storico del cinema Laurent Véray, dopo aver attentamente esaminato i cinegiornali della Grande Guerra, ha citato solo un caso di ripresa di un combattimento dal vero, ma si tratta di un breve filmato che «colpisce, in ogni caso, per l’incapacità di mostrare realmente il combattimento».
Oltre alla censura e alle difficoltà tecniche, c’era un altro impedimento alla rappresentazione cinematografica di quel che realmente avveniva al fronte: «nel massimo numero dei casi» osservò il regista Gariazzo «la guerra moderna non si vede», e pertanto «la riproduzione cinematografica serve poco a riprodurre l’idea della guerra». Lo stesso impedimento provarono i combattenti quando tentarono di raccontare la loro esperienza nei diari, nelle lettere e nelle memorie. Nonostante ciò, è accaduto che scene della Grande Guerra inventate dal cinema siano state accreditate come immagini della vera realtà. Un fotogramma del film di Léon Poirier, Verdun, visions d’Histoire, prodotto nel 1928, che mostra un soldato francese colpito a morte durante un assalto, è stato scambiato per una fotografia dal vero, e come tale appare tuttora riprodotto in opere sulla Grande Guerra. Si tratta, comunque, di uno sbaglio veniale se consideriamo che, nel corso di cento anni, nella variazione dei temi e delle interpretazioni della Grande Guerra, la cinematografia ha accompagnato il variare della storiografia, muovendo dal nazionalismo al pacifismo, dall’apologia epica al realismo spietato, dal romanticismo al cinismo, per approdare in tempi più recenti, come osserva Ghigi nella conclusione del suo saggio, alla disincantata rappresentazione di «un’immane tragedia che rimane nonostante tutto invisibile», perpetuandosi nella memoria collettiva attraverso il simbolo del Soldato Senza Nome, che realisticamente evoca la Prima grande guerra, dove l’individuo fu immerso e annullato nella massa anonima delle trincee.

Di Emilio Gentile

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