Il teschio del brigante conteso e quella retorica sul brigantaggio

del 11 Gennaio 2013

Lino Patruno

Fuoco del Sud

La ribollente galassia dei Movimenti meridionali

Sta riscuotendo un’eco davvero vasta la querelle tra il comune calabrese di Motta Santa Lucia e il Museo Cesare Lombroso di Torino che custodisce il cranio del brigante calabrese (originario di Motta S. Lucia) Villella se addirittura oggi il quotidiano “la Repubblica” vi dedica un paginone con perfino un richiamo in prima pagina (per l’articolo clicca qui).

Il perché di tanta acredine tra i due attori coinvolti e di tanto clamore è presto detto. Dietro la faccenda di questo cranio non c’è solo la volontà di dare degna sepoltura ai resti mortali di un essere umano ma una storia fatta di secolari pregiudizi antimeridionali che trovano proprio nelle teorie di Lombroso uno dei principali imputati e, soprattutto, la recente rivalutazione in chiave antirisorgimentalista del brigantaggio letto come movimento di resistenza all’invasione di un’esercito straniero.

Ecco dunque che il cranio del brigante diventa una sorta di reliquia laica che significa molto più di quel che effettivamente è. Il “brigante rubato” rappresenta il risentimento verso un Nord Italia che a 150 anni dall’Unità appare ancora distante e che le difficoltà generate dalla crisi economica stanno facendo allontanare, se possibile, ancora di più.

Di questo diffuso risentimento che definiremmo “controleghista” dà ampiamente conto Lino Patruno in un libro pubblicato da Rubbettino e intitolato opportunamente Fuoco del Sud

Del resto, lo stesso odiatissimo Lombroso, erto oramai a simbolo del pregiudizio antimeridionale, in un suo diario di viaggio in Calabria, riproposto recentemente da Rubbettino all’interno della collana “Viaggio in Calabria” (C. Lombroso, In Calabria), che merita di essere letto anche solo per comprendere meglio una figura ridotta a macchietta di sé stesso dalla vulgata semplicista, annotava:

“…mi duole il constatare per troppe vie officiali o quasi officiali che la sospirata unificazione d’Italia, ahi, troppo più formale che sostanziale, non ha recato alcun profitto nei rami più importanti della convivenza Calabrese; e in molti anzi imprimeva un regresso: come certo nell’agricoltura, nella emigrazione, nella criminalità, nella proprietà, nell’economia, nella morbidità, nella nuzialità, nei morti precoci, nelle scuole”. 

Ma andiamo ai briganti. 

Si sta assistendo da tempo a un’operazione di maquillage storico tesa a sostituire l’immagine del brigante come cattivissimo antenato del moderno mafioso a quella del brigante come patriota in lotta per la libertà e il benessere della propria terra. 

Sulla demistificazione di entrambi le immagini, Enzo Ciconte, noto storico della criminalità, ha pubblicato di recente con Rubbettino un bel libro riccamente illustrato, intitolato Banditi e briganti in cui non solo si mette in evidenza come il brigantaggio non sia un fenomeno circoscritto all’Italia meridionale postunitaria, ma affondi le sue origini nel Cinquecento e abbia conosciuto una diffusione pressoché totale in tutti gli stati preunitari. Troviamo briganti in epoche diverse in Toscana, Piemonte, Emilia-Romagna, Puglia, Sicilia, Abruzzo, Calabria, Basilicata, Molise, Lazio, Veneto… ma anche come  il fenomeno del brigantaggio abbia poco a che spartire con le mafie.

I briganti erano spesso malviventi, banditi, uomini datisi per mille ragioni alla macchia, sfruttati o combattuti a seconda dei casi dalla borghesia e dalle classi sociali più potenti per raggiungere i propri fini di usurpazione o protezione.

Dalle pagine del libro di Ciconte emerge una storia interessante e affascinante, forse meno romantica di quanto alcuni vorrebbero, ma certamente più capace di rendere conto della complessità del reale.

UFFICIO STAMPA RUBBBETTINO EDITORE 

Altre Rassegne