Fellone punito o vittima innocente? Dubbi e misteri su Pier della Vigna (Corriere della Sera)

di Giuseppe Galasso, del 24 Agosto 2015

Dal Corriere della Sera del 20 agosto

Pier della Vigna (o anche al plurale: delle Vigne) ha la fama che ha grazie al drammatico ritratto di Dante nel suo Inferno. Lì, come si sa, Piero figura come potente ministro di Federico II di Svevia, del cui cuore aveva tenuto «ambo le chiavi», quasi escludendo ogni altro dalla confidenza del sovrano, ma con tanta dedizione da perderne «il sonno e i polsi» per la consapevolezza e il senso di responsabilità con cui aveva svolto la sua parte presso il sovrano, sempre tenendo fede «al glorioso ufficio». Invidia e malignità, solite nella vita di corte, lo avevano poi fatto cadere in disgrazia presso Federico, e lo avevano spinto a suicidarsi, benché mai avesse mancato ai suoi doveri verso il suo «signor che fu d’onor sì degno».
I versi di Dante sono incisi anche su un masso ai piedi della rocca di San Miniato. Lì si dice che Piero, improvvisamente arrestato a Cremona nel febbraio 1249, fosse incarcerato, e lì torturato e accecato, per cui alla fine, non si sa come, vi si sarebbe suicidato.
Ce n’era abbastanza per sollevare voci più varie su quella repentina caduta in disgrazia: questione di donne, o partecipazione di Piero a una congiura antimperiale, o punizione per suo illecito arricchimento, o casuale conseguenza di un grave momento di difficoltà nell’azione politica di Federico II dopo la sconfitta di Parma del 1248. Questioni opinabili, e forse insolubili, che, però, non attenuano l’interesse attirato su Piero, oltre che da Dante, dai trent’anni (122o-1249) in cui fu al servizio di Federico H, prima come notaio e scrittore della cancelleria, poi come giudice e logoteta (alto funzionario politico di corte, quasi un segretario personale del sovrano) del Regno di Sicilia.
Della sua attività curiale è testimonianza il suo cosiddetto «epistolario». Ce ne restano quattro diverse sillogi, ma un’edizione completa moderna (dopo quelle di Simon Schard a Basilea nel 1556 e di Johann Rudolf Iselin nel 1740 a Hildesheim) mancava alla grande cultura europea ed era da tempo auspicata.
Vi ha oggi provveduto il Centro europeo di studi normanni, di Ariano Irpino, presieduto da Ortensio Zecchino, pubblicando L’Epistolario di Pier della Vigna (coordinatore Edoardo D’Angelo con vari collaboratori, testo latino e traduzione italiana, Rubbettino editore). Si tratta, in realtà, come dice D’Angelo, «di circa 550 tra manifesti, mandati, epistole e documenti di vario genere», datati dal 1198 al 1264, e dunque solo in parte dovuti di sicuro a Piero. La compilazione pare di tipo manualistico, secondo la massima parte degli specialisti di questa materia, e messa insieme fra il 1264 e il 1318, forse presso la Curia romana, allo scopo di fornire esemplari di redazione cancelleresca di vari tipi di testi.
Ciò dice, peraltro, quale fosse il prestigio culturale dei testi della cancelleria sveva, di cui Piero fu tanta parte. Egli vi realizza, infatti, la piena integrazione di una soda cultura giuridica (pare abbia studiato a Bologna) con una perizia da grande letterato, maestro di stile e di retorica (studiata nelle scuole della natia Capua): una perizia rafforzata dalla sua scrupolosa disciplina nell’osservare i canoni e i precetti artificiosi e manieristici dell’ars dictandi (l’arte dello scrivere) del suo tempo, che certo animavano anche la sua attività oratoria e ricorrono nelle sue poche prove poetiche.
Né la retorica, né il diritto esauriscono, però, l’interesse di questo «epistolario». Vi si ritrovano, infatti, testi importanti per le dottrine e i dibattiti politici del tempo in cui la lotta tra Federico II e la Chiesa di Roma occupò gran parte della scena europea. Allora molti videro in Federico un vero e proprio Anticristo, ma altri, com’è detto in un’epistola famosa di Piero, «un principe tanto grande, nel cui petto confluiscono tutte le virtù, che le nubi hanno fatto piovere (in terra) perfetto e sopra il quale i cieli dall’alto hanno sparso rugiada».
Non per nulla, del resto, Federico sarebbe stato non solo lo «stupore del mondo» ai suoi tempi, ma il grande eroe laico e moderno, e perfino un quasi superuomo, della cultura europea dall’Illuminismo in poi.
Sia pure attraverso la prosa spesso faticosa del tempo, anche il lettore non specialista può farsi, così, grazie a questa notevole impresa editoriale, un’idea concreta di un periodo storico climaterico e di un protagonista fra i più affascinanti della storia europea.

Di Giuseppe Galasso

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