Storia di Abby, ex manager dell’aborto che un giorno aprì gli occhi reggendo una cannula in sala operatoria (Tempi.it)

di Caterina Giojelli, del 15 Aprile 2015

Abby Johnson

Scartati

La mia vita con l'aborto

Da Tempi.it del 15 aprile

Soprattutto, aveva capito con orrore il senso di azioni compiute anni prima, quando pensava di non avere alternative. Quel palpitante esserino rannicchiato nel ventre della donna – di tutte le donne come lei – presente quel sabato in sala operatoria, solo “un momento fa” era vivo. «Non erano tessuti, non erano cellule. Era un bambino umano, che lottava per vivere! Una lotta perduta in un batter di ciglia».
I DUE FRONTI. Vale davvero la pena di leggere il libro di Abby Johnson, Scartati. La mia vita con l’aborto, appena edito in Italia da Rubbettino (258 pagine, 16 euro), per la sua storia traboccante di umanità, e quindi di contraddizioni, forse anche insensatezze, ma anche di grande coraggio e verità: «Posso testimoniare che c’è del buono, del giusto e dello sbagliato da entrambe le parti», scrive l’ex manager del colosso degli aborti Usa passata al fronte “nemico”. Proprio a Bryan, Texas, dove Abby dirigeva la “sua” struttura targata Planned Parenthood, un misterioso destino ha voluto che muovesse i primi passi quella Coalizione per la Vita che avrebbe in fretta ispirato la formazione di gruppi simili ovunque negli Stati Uniti. E per Abby in quegli anni la cosa «più scioccante» è che i due fronti divisi dalla cancellata della clinica hanno «molte più cose in comune di quanto possiamo immaginare».
IL TORMENTO. Tuttavia, la verità sta da una parte sola, e non si serve della buona fede o del desiderio di sentirsi preziosi, dal proprio punto di vista, per la vita degli altri. Abby si spende per la “riduzione del numero di aborti” offrendo alle donne che vengono alla clinica contraccettivi e “opzioni”, come un menu: allevare il bambino, darlo in adozione o abortirlo, chirurgicamente o farmacologicamente. E questo nonostante il suo corpo sia già stato straziato dai dolori provocati dall’assunzione della pillola abortiva Ru486: «La verità è che l’aborto era diventato una realtà semplice e normale della mia vita». Si considera cristiana, come quasi due terzi delle donne che secondo l’Istituto Guttmacher, il braccio di ricerca della Planned Parenthood, hanno abortito. E le veglie di preghiera organizzate intorno alla clinica la tormentano. «Da una parte dovevo essere felice di pregare per la fine degli aborti, perché ero favorevole alla loro riduzione. Dall’altra parte non volevo che gli aborti finissero perché in caso di necessità le donne dovevano avere la possibilità di praticarli». In mezzo, spartiacque ideale del libro, c’è la grande cancellata, una barriera fisica e simbolica che separa l’interno della clinica, satura di conflitti e sofferenze di ogni natura, dalla strana cinta esterna, umana e piena di compassione, forgiata dalla Coalizione. Gente che non veste i panni della grande mietitrice che rotea la falce e non sventola foto di feti abortiti, come i provocatori del fronte pro-life della prima ora. Semplicemente prega. E quando parla dice cose tremendamente sensate.
QUESTIONE DI PERFORMANCE. Quando la informarono che Planned Parenthood stava progettando di aprire a Houston un’imponente clinica di sette piani su 26 mila metri quadrati con un intero piano destinato presumibilmente ai servizi medici e abortivi, Abby aveva già capito molte cose: «Mi resi conto che si sarebbe trattata della clinica più grande a livello nazionale, per la quale si era anche fatta richiesta di una speciale licenza chirurgica ambulatoriale che avrebbe permesso di praticare aborti tardivi fino a 24 settimane». Più l’aborto veniva ritardato più costava: dai 3 mila ai 4 mila dollari circa. I manager di Planned Parenthood chiesero esplicitamente ad Abby di aumentare le entrate provenienti dagli aborti, e quindi il numero degli “interventi”. A tutto questo stava pensando Abby il giorno in cui venne chiamata a reggere una sonda.
LA CONVERSIONE. Otto anni prima, alla fiera del volontariato in università, arruolandosi in Planned Parenthood, Abby aveva preso una posizione che credeva ardentemente giusta, era convinta che quello fosse il suo posto, che da lì potesse fare la differenza, fare del bene a sé e a chi aveva bisogno. Poi entrò in quella sala operatoria e finalmente aprì gli occhi. Non solo su quel prezioso bambino non ancora nato e sacrificato violentemente “in buona fede”, ma sulla trappola in cui era caduta, la trappola di Planned Parenthood: «Allineandomi a un’organizzazione che praticava gli aborti, mi ero condannata a fare proprio ciò che dicevo di voler ridurre». Quello che accadde dopo è una lunga storia di conversione e passione: la storia di una donna che finì in tribunale per difendere davanti a una corte il proprio cambiamento, la verità a cui era approdata spogliandosi di tutto quello che aveva guadagnato, costruito, professato. E vale davvero la pena di leggere fino alla fine questa storia, leggere cosa accadde dopo quel giorno – quell’orribile, devastante, sorprendente e illuminante giorno – in cui Abby passò per sempre al lato giusto della barricata.

di Caterina Giojelli

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