Letteratura antidoto alla politica (Domenica (Il Sole 24 Ore))

di Giuseppe Lupo, del 9 Giugno 2014

da Domenica (Il Sole 24 Ore) dell’8 Giugno

Dovrebbe far riflettere, quando si ricorre con troppa faciloneria alla formula del provincialismo culturale e la si applica in maniera indistinta all’Italia tra le due guerre, il caso di Corrado Alvaro: scrittore considerato tra gli esponenti di un meridionalismo in pectore, sulla linea che dal dopo-Verga conduce a Carlo Levi, eppure profondamente aperto alle istanze europeiste, curioso nei confronti delle letterature extranazionali, così come risulta dalle lettere scambiate con Valentino Bompiani tra la metà degli anni Trenta e l’inizio del secondo conflitto mondiale. A inaugurare il carteggio, nel gennaio del 1934, c’è il progetto di tradurre un romanzo dello scrittore russo Boris Lavrenév; a concluderlo (almeno in questo primo volume, che s’interrompe al dicembre del 1940, rimandando a un futuro i materiali che si prolungano fino al 1956), l’adattamento di un’opera del teatro spagnolo risalente al XV secolo: La Celestina di Fernando de Rojas. Fra questi due estremi, che sono espressione di imparagonabili parentele letterarie, ma denotano una spiccata attitudine per le forme drammaturgiche tanto nell’uno quanto nell’altro interlocutore, si colloca il viavai di proposte editoriali, richieste di denaro, attestazioni di reciproca stima, discussioni sull’interesse che i testi di Alvaro suscitano presso case editrici estere, informazioni che solo in rare circostanze sconfinano nei territori dell’esperienza quotidiana. Alvaro in quel periodo vive stabilmente a Roma, collabora al quotidiano «La Stampa» ed è un autore deciso ad accasarsi con il marchio Bompiani dopo varie esperienze presso diverse sigle, alcune delle quali di prestigio, come Vallecchi, Treves, Le Monnier e Mondadori.

Bompiani, da parte sua, non perde occasione per invitarlo a entrare nella sua scuderia. «Ogni Sua lettera suscita in me grandi nostalgie per quell’accordo editoriale che forse sarebbe nato se io non avessi voluto essere troppo disonesto», gli scrive il 13 febbraio 1934. Gli apparati predisposti dalla curatrice non sciolgono l’enigma relativo al perché di quel «troppo disonesto», però è facile pensare che un’autocritica così accorata sia all’origine della proposta che Alvaro invierà sul tavolo di Bompiani il 13 gennaio di quattro anni dopo: «Da tempo ho viva simpatia verso la Sua opera di editore e sarebbe mio desiderio diventare un Suo scrittore». Siamo già nel 1938, anno in cui vede la luce L’uomo è forte, il libro più importante dopo Gente in Aspromonte(1930), ambientato in quella stessa Unione Sovietica (da cui aveva preso le mosse il dialogo fra i due), sia pure sfrondato di riferimenti geografici tanto da renderlo il ritratto di una condizione interiore piuttosto che un reportage di viaggio. La maggior parte dell’epistolario si concentra intorno al lavoro che accompagna questo romanzo in libreria dopo essere passato attraverso le insidie della censura che non poteva non insospettirsi del titolo. E tuttavia il gran ragionare sull’eventualità di mandare in stampa nuovi testi narrativi o vecchie pubblicazioni sembra mantenere in secondo piano o addirittura eclissare gli echi della scena politica. Sicché verrebbe da pensare che in quel contesto la letteratura sia vissuta ancora quale antidoto alla politica, cioè rimanga in forma di processo lirico, tentativo di astrazione anziché farsi linguaggio della Storia. E ciò carica di aspettative i documenti rimasti in archivio, quelli del periodo successivo, se non altro per la cornice mutata in cui andranno a inserirsi.

di Giuseppe Lupo

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