Il problema italiano: tanti liberali, poco Stato (Blog.Corriere.it)

di Daniela Coli, del 12 Giugno 2015

Da Blog.Corriere.it del 12 giugno

È proprio della mentalità razionalistica ritenere valida una filosofia politica, se vera e coerente in teoria, anche se in pratica non funziona, perché la politica non è matematica, avrebbero detto Cartesio e Hobbes. Cartesio non perse neppure tempo a occuparsi di politica, procurava solo guai, Hobbes invece esordì prendendo in giro i filosofi morali (così chiamava i filosofi politici) che disputano continuamente con la penna e con la spada per stabilire il giusto e l’ingiusto senza arrivare a niente, perché il giusto e l’ingiusto sono soltanto parole. Proprio perché la politica non è una scienza come la matematica, ma ha a che fare con gli interessi e le passioni umane, molte discussioni italiane sul liberalismo, come prima sul marxismo, sono astratte, buone ad alimentare l’editoria italiana, ma inefficaci nella pratica.
Il liberalismo non ha un corpo dottrinario come il marxismo ed è quindi ovvia l’esistenza di diversi liberalismi. Inoltre, il liberalismo come bandiera politica nasce dopo le rivoluzioni del 1848 per fermare il socialismo. “Enrichissez vous” aveva gridato ai francesi Guizot nel 1840, ma il liberalismo nell’Europa continentale finirà travolto nel ‘900 dal socialismo. Il termine liberali non ha nei Paesi di lingua inglese il significato che in Italia attribuiamo al liberalismo e non esistono grandi partiti che si definiscono liberali nei più importanti paesi occidentali. Nel Regno Unito esiste il partito tory o conservatore, negli Stati Uniti quello repubblicano, in Francia lUmp gollista. Questi partiti non si definiscono liberali, anche se attuano politiche liberali e liberiste (la conservatrice Thatcher fece una rivoluzione liberale rimanendo orgogliosamente tory), perché si definiscono rispetto alla visione dello Stato e hanno a cuore la difesa e la sovranità. Sono i tory o conservatori ad avere posto in Uk il problema del referendum sull’Unione europea. La democrazia liberale, di cui tanto si parla da noi, è un ossimoro, perché, come sostiene Giovanni Sartori, il sostantivo si mangia l’aggettivo, in quanto con l’introduzione del suffragio universale, il deputato deve contentare gli elettori per essere rieletto e non si preoccupa quindi del debito dello Stato, com’è accaduto e accade in Italia.
La democrazia liberale funzionava, quando i parlamentari erano la borsa dello Stato, erano coloro che pagavano le tasse e quindi stavano attenti ai bilanci. Per quanto riguarda l’Italia, Croce diventa liberale, quando diventa antifascista, dopo il 1925. Nei primi venticinque anni del 900 è tuttaltro che democratico, basta ricordare le battute su Salvemini. A proposito del secondo tomo del “Dizionario del liberalismo italiano” edito da Rubbettino, Antonio Cairoti ha osservato che Gaetano Salvemini e Giovanni Gentile si sarebbero stupiti nel vedersi considerati appartenenti allo stesso mondo liberale, ma chissà quali battute sarebbero uscite dalla penna di Croce. Il 28 luglio 1945, in linea con quanto aveva scritto in passato su Salvemini, scrisse: Salvemini fu ossessionato da un odio ferocissimo per Giolitti e non vedeva altra via di salute per il popolo italiano che il suffragio universale. Nel cervello di Salvemini vi è caos. La critica di democrazia, socialismo e illuminismo è una costante di Croce. Inutile ricordare i giudizi sulla rivoluzione francese e sulle sue dee alcinesche. Nel 1911 deplorò la decadenza delle grandi parole come Re, Patria, Nazione ed equiparò i partiti a generi letterari: più volte aveva paragonato la democrazia a una lotteria, dove chiunque poteva arricchirsi a spese degli altri cittadini. Era un realista politico conservatore. Considerava la guerra un fenomeno naturale, come un terremoto, e si schierò contro Wilson e la Società delle Nazioni, mentre l’economista liberale Einaudi auspicava la fine degli Stati nazionali. Imbastire grandi dibattiti sulle differenze tra il liberalismo di Croce e quello di Einaudi ha poco senso, perché se per Einaudi le nazioni europee dovevano scomparire, per Croce non era così. Se per Einaudi la Germania doveva sparire, Croce non riusciva neppure a pensare nel 1918 che al centro d’Europa non ci fosse più la laboriosa e ordinata Germania a dare stabilità a tutto il continente. Croce non credeva in istituzioni sovranazionali o transnazionali come la Società delle Nazioni o l’Onu e per ‘Europa pensava allEuropa delle patrie, non certo all’attuale Unione Europea fondata sull’euro. Diventò liberale in quanto antifascista, ma il suo liberalismo era metapolitico, una religione da intellettuali, come lo definì. Per Croce, appartenente a una delle prime generazioni nate dopo l’unità d’Italia, il pensiero principale è sempre I’Italia come stato indipendente e sovrano. In questo Croce non era diverso da Gentile, anche se poi trovarono a rappresentare l’Italia spezzata in due. Per patriottismo fecero entrambi due errori destinati a pesare: Croce si illuse che gli angloamericani avrebbero permesso di organizzare una resistenza militare come quella di De Gaulle in Francia e l’Italia sarebbe stata al tavolo dei vincitori, Gentile, più realistico, dopo il 18 settembre sperò in una nuova Vittorio Veneto che riscattasse Caporetto. Gentile pagò con la vita, Croce votò addirittura contro il trattato di pace nel ’47 e si trovò solo.
La facilità con cui la cultura italiana si aggrappa al liberalismo come all’europeismo non è diversa dalla precedente fede nel marxismo ed è la spia dell’assenza di una qualche visione dello Stato nazionale, propria invece di paesi come il Regno Unito, la Francia, la Germania. L’assenza si nota sia nella diffusa aspettativa che l’Europa risolva i nostri problemi, sia nel fenomeno del trasformismo, presente fin dalla nascita dell’Italia come stato nazionale. L’inclusione di personalità tanto diverse nel “Dizionario del liberalismo italiano” fa parte del trasformismo del partito della nazione, teorizzato dell’ex gappista Alfredo Reichlin il 24 maggio 2014 in un articolo dai toni gentiliani (lo ho vissuto la catastrofe dell’8 settembre del 1943. Ho visto come allora un gruppo di politici giovani (meno di 40 anni) si rivolsero a un popolo che allora era ridotto a una massa di profughi in fuga dalla guerra e dal collasso dello Stato), dimenticandosi che Gentile fu ucciso dai Gap. Insomma, la solita storia d’Italia, e quel continuo Making and remaking Italy di cui ha parlato Albert Russell Ascoli, un storico amico dell’Italia.
L’assenza di secoli di assolutismo come in Gran Bretagna e Francia ha significato, come recentemente ha osservato Giovanni Belardelli, l’assenza di un potere statale forte, capace di affermare la propria supremazia e di disciplinare la società, dare regole, fissare obblighi e anche una cultura adeguata. Appunto, sarà poco progressista, come conclude Belardelli, ma centra i nostri problemi. Nessuno ha mai messo in dubbio l’esistenza dell’Italia come unità geografica, ma Iltalia come nazione è soprattutto un mito della letteratura e non ha avuto un teorico della sovranità come Hobbes o Bodin, perché ha avuto comuni, repubbliche, signorie, ducati, ma mai una delle tante denigrate monarchie assolute. Machiavelli introduce la parola Stato in politica, ma non ha una teoria della sovranità, come Hobbes e Bodin, nella cui filosofia politica non c’è la parola Stato. Machiavelli, anche se non vide mai una rivoluzione, è il teorico delle rivoluzione moderne, come capì Hannah Arendt, non della sovranità. Siamo sempre a quel “E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo”. insomma basta ammazzare gli avversari e prendere il potere. Più in là non si va. Mentre Hobbes disarma i cittadini, solo gli uomini naturali hanno diritto a tutto, anche rubare e uccidere, perché prima dello Stato non c’è niente per l’autore del “Leviathan”, né società, né legalità, commercio, cultura, arte, benessere. Certo, gli Stati sono anche mostri, ma sono quei mostri che hanno prodotto cittadini come i britannici o i tedeschi, che anche nei peggiori momenti rimangono al loro posto e continuano a fare quello che hanno sempre fatto senza scomporsi: è il risultato di una tradizione culturale che viene impartita attraverso l’istruzione e favorisce certe virtù. Sono queste nazioni che non saranno travolte dalla globalizzazione. Noi, speriamo che me la cavo.

Di Daniela Coli

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