Vittorio Possenti risponde a Gaetano Pecora in un’intervista esclusiva (Il Corriere della Sera)

di Gaetano Pecora, del 19 Giugno 2012

Domenica 10 giugno Gaetano Pecora dalle pagine dell’inserto “La lettura” del “Corriere della Sera”  criticava aspramente il volume “Nichilismo Giuridico” di Vittorio Possenti, dissentendo in particolare con il giudizio negativo di quest’ultimo sull’opera di Hans Kelsen.
Abbiamo chiesto in una breve intervista a Vittorio Possenti di spiegare le sue ragioni. Proponiamo qui di seguito, IN ESCLUSIVA, il testo dell’intervista precisando che è liberamente pubblicabile citando la fonte.

Domanda: Sull’inserto domenicale ‘La lettura’ (Corriere della sera, 10 giugno 2012) è apparsa una recensione del suo volume Nichilismo giuridico. L’ultima parola? (Rubbettino 2012) a firma di Gaetano Pecora col titolo “Il mito di Kelsen cattivo maestro”. Che impressione ne ha tratto?

Risposta: A mio parere la recensione appare frettolosa in specie per il silenzio in cui rimane il tema centrale del volume – il nichilismo giuridico – e le domande che lo accompagnano: che cos’è il nichilismo giuridico? Come è sorto? Quali i suoi antefatti e quali i suoi esiti? Quali categorie occorre mettere in azione per intenderlo? Tanta parte del volume è dedicata a questi nuclei, ma il recensore non ritiene opportuno informare il lettore in merito alle questioni della ragion pratica, della norma, del carattere della scienza giuridica, del giuspersonalismo, del diritto naturale, etc.

D: Quale risulta a suo parere il nucleo principale delle valutazioni di Pecora?

R: Il suo punto centrale è la difesa a spada tratta della ‘dottrina pura del diritto’ di Kelsen, appoggiata sull’assunto che sarebbe una semplice ‘teoria descrittivà del diritto. Contro Kelsen sostengo che la scienza giuridica è una ‘scienza impura’ nel senso che appartiene al campo delle scienze pratiche che di per sé sono volte a conoscere ed a normare l’azione umana nei vari campi dell’esistenza e naturalmente in quello dell’esperienza giuridica. Ciò significa che la scienza giuridica non può essere una scienza logico-formale e soltanto descrittiva come sembra ritenere Kelsen. Questi, azzerando l’idea stessa di ragion pratica – che è ragione ad un tempo conoscitiva e normativa – toglie al diritto ogni razionalità e finisce per corrompere lo stesso carattere centrale della scienza giuridica. La corruzione consiste nel fatto che Kelsen nella sua dottrina si rifiuta di valutare il contenuto delle leggi positive, che possono stabilire qualsiasi cosa.

Indubbiamente Kelsen era libero di elaborare una scienza descrittiva del diritto, se solo si fosse astenuto dalla grande quantità di giudizi di valore che popolano premesse e svolgimenti di tale dottrina soi disante pura. Si tratta di giudizi che entrano nel campo dei valori e rendono contraddittoria la sua impresa di separare validità e valore. A titolo di esempio tra i grandi ‘pregiudizi’ di Kelsen citerei: antigiusnaturalismo, antipersonalismo, antimetafisica, una dottrina del tutto positivistica della ragione, la grande divisione tra essere e dover essere. Si potrebbe continuare a lungo in un’elencazione che rende così poco pura e soggetta a fortissimi assunti valoriali la cd dottrina pura del diritto.

Appare ingenua e poco consapevole della posta in gioco la candida ammissione che la scienza pura del diritto di Kelsen sia così pura… Via, non siamo tutti di bocca così buona, ed è bene qualche volta iscriversi alla congregazione degli apoti.

D: Si è molto parlato dell’avversione di Kelsen al giusnaturalismo, meno del suo antipersonalismo…

R: In effetti l’antipersonalismo kelseniano è curiosamente rimasto in ombra. Ho svolto talune considerazioni in merito in Il Principio-Persona (Armando 2006), oltre che nel volume di cui parliamo. Magari alcuni ‘commentatori’ potranno ritenere che il concetto di persona sia estraneo alla dottrina pura del diritto, concentrata solo sul descrittivo. In realtà questa è tanto poco pura e descrittiva che Kelsen parla ampiamente della nozione di persona sotto il titolo inequivoco “La dissoluzione del concetto di persona” che sarebbe soltanto un “artificio del pensiero” (Lineamenti di dottrina pura del diritto) da cancellare. La dottrina pura del diritto non sa che farsene del concetto di persona! Mi permetto di ricordare che per Rosmini “la persona è il diritto sussistente”, quindi il fondamento del diritto. Una dottrina pura del diritto e chi la difende rischia di sognare ad occhi aperti se non fa i conti con simili semplificazioni, a mio avviso disastrose. La teoria del diritto di Kelsen rompe dunque con la tradizione dell’umanesimo politico e giuridico occidentale, che si è edificato su una nozione concreta, vivente e non formale di persona.

Non posso esimermi dal confermare che la dottrina pura del diritto di Kelsen, insieme ai suoi presupposti, conduce al nichilismo giuridico, come del resto hanno visto non pochi, anche se forse non hanno tutti fatto ricorso al lemma ‘nichilismo giuridico’.

D: Ma Kelsen è stato veramente un ‘cattivo maestro’? Non ha lottato contro i totalitarismi?

R: È innegabile che Kelsen è stato a favore della democrazia e contro i totalitarismi. Ma è altrettanto vero che egli ha sostenuto come uomo comportamenti opposti a quelli che possono trarsi dalle sue teorie e questo – a mio avviso – avrebbe dovuto indirizzarlo a mutare le basi della sua dottrina pura del diritto e di quella sulla democrazia. Quale senso possiede sostenere in sede di teoria della democrazia che ” la democrazia stima allo stesso modo la volontà politica di ognuno, come rispetta ugualmente ogni credo politico, ogni volontà politica”, e nel contempo opporsi al nazismo? Sembra qui sussistere una profonda contraddizione tanto esistenziale (e viva Kelsen uomo!) quanto teoretica (ed allora, oserei dire, abbasso Kelsen teoreta!).

In base a ciò è fondato sostenere che per quanto concerne la Germania nazista il positivismo giuridico kelseniano non offriva risorse giuridiche che potessero essere impiegate per opporre resistenza al nazismo: molti giuristi tedeschi vennero intellettualmente e moralmente disarmati dal positivismo giuridico. Tale è stata l’opinione di molti, tra cui Gustav Radbruch, Charles E. Rice e, si licet, mia.

D: Il recensore ha inoltre sollevato talune altre osservazioni su Nichilismo giuridico.

R: Desidero chiarire due punti su cui la recensione è incorsa in notevoli fraintendimenti. Il primo concerne il ricorso a diversi criteri di giustizia in ambiti diversi della vita sociale. Se ad es. ci riferiamo al criterio ‘a ciascuno secondo il bisogno, da ciascuno secondo le capacità’ e all’altro criterio ‘a ciascuno secondo il merito’, è chiaro che questi non possono andare insieme o contemporaneamente. In effetti ricorriamo al primo nel bisogno di salute, per cui moderni sistemi sanitari vengono incontro al bisogno individuale di salute che è variabile da persona a persona, mentre in certo modo ricorriamo al secondo criterio nel campo di attività economiche, produttive professionali. Il recensore – non si sa su quale fondamento – ritiene che io sostenga che i due criteri sono gemelli e vanno insieme, inconsapevole della contraddizione. Temo che il facilismo di tale giudizio sia a carico del recensore.

Il secondo spunto concerne il ricorso alle maiuscole e minuscole. Sembra sfuggire a Pecora che scrivere diritto talvolta con la ‘D’ maiuscola e talvolta con la ‘d’ minuscola, significa esattamente (come nel libro è detto e ridetto) che non esiste un solo tipo di diritto (il che sarebbe monismo giuridico), quello positivo, cui del resto non nego minimamente la sua dignità insostituibile e la sua ragionevolezza, tanto è vero che il nichilismo giuridico non nasce quando c’è diritto positivo, ma solo questo è ritenuto un mero prodotto della volontà e del potere.

Ora non sussistono motivi per caratterizzare come ‘Stato di diritto’ qualsiasi regime politico, anche antidemocratico e totalitario. In questo modo la dottrina pura del diritto rischia di diventare l’apologia di ogni potere reale, nel momento in cui si afferma il monopolio della produzione giuridica da parte dello Stato. N. Bobbio, che pur aveva difeso varie posizioni di Kelsen, concluderà nel 1981 a proposito di questi: “Norma e potere sono due facce della stessa medaglia”.

D: A suo parere il nucleo del volume è stato colto?

R: Penso di poter nutrire dubbi. Il recensore non informa il lettore sul tema centrale del volume (il nichilismo giuridico appunto). Neppure lascia trapelare se tale nichilismo sia a suo avviso un’invenzione di persone allarmistiche o un rischio ben reale.

Il diritto è tuttora soggetto a scossoni e non secondarie tentazioni nichilistiche, sino al punto che – come è stato di recente sostenuto – ciascuno potrebbe e dovrebbe creare il suo proprio diritto in base al semplice atto della sua volontà infinita e insindacabile. Del nichilismo europeo si tratta da oltre 150 anni e menti notevolissime si sono esercitate a fondo nel pensare il tema, talvolta ribadendo il cammino nichilistico, talatra avvertendo lucidamente il rischio. In modo certo diverso gli uni e gli altri rendono testimonianza all’assunto che nella questione del nichilismo (giuridico) siamo coinvolti sino in fondo e con tutti noi stessi, e si dovrà pur prendere posizione motivata, evitando manovre dilatorie e cortine fumogene che non si confrontano con la durezza del problema.

D: Se non mi inganno, la diversità di opinioni sul nichilismo e il positivismo giuridici chiamano in causa prospettive filosofiche basilari.

R: Nella prospettiva lungamente elaborata dalla tradizione e tuttora presente, natura umana e ragione risultano le vere fonti del diritto, per cui l’incontro tra filosofia greca e diritto romano, catalizzato dal cristianesimo, ha costituito la base del pensiero giuridico occidentale dal Medioevo all’Illuminismo e alla Dichiarazione universale. A partire dal XIX secolo e in varie ondate sino ad oggi quei fondamenti della civiltà giuridica – natura umana e ragione – sono stati fortemente scossi dall’obiezione positivistica, tuttora in atto. La cultura del positivismo intende apertamente porsi come unico fondamento comune per la formazione del diritto, atteggiamento cui si accompagna un’esplicita sottovalutazione e talvolta disprezzo di altre filosofie e culture, tradizionalmente in grado di rendere ragione del diritto e dell’esperienza giuridica.

Una malcelata aggressività verso posizioni non positivistiche è propria del positivismo che ripropone un modello di ragione ricalcato solo sul formalismo logico e sulle scienze empiriche, assunto che taglia le ali alla ragione umana e può sconfinare nell’irrazionalismo. Il nichilismo circolante nel positivismo giuridico radicale proviene in buona misura da ciò e dallo spostamento verso il volere. Ma quali motivi abbiamo per cedere le armi così in fretta al positivismo?

Da Il Corriere della Sera – 10 giugno 2012

Perché non convincono le critiche di Vittorio Possenti all’autore austriaco

II mito di Kelsen «cattivo maestro». È ingeneroso accusare di nichilismo la sua concezione descrittiva del diritto

Potenza dei caratteri tipografici! Basta che una maiuscola si rattrappisca in minuscola perché tutti i beni più cari (vita, libertà, onore) rovinino in un abisso di disperazione. Così, almeno, nel saggio di Vittorio Possenti Nichilismo giuridico (Rubbettino), per cui «esiste il Diritto (rigorosamente in maiuscolo, ndr) in quanto esiste qualcosa che è dovuto alla persona… il suum che è ragionevole attribuirle è l’atto di nascita del Diritto».
Quando invece il diritto (in minuscolo) si slaccia dall’abbraccio con la ragione e non riconosce ciò che è proprio ad ognuno, allora diventa «un mero prodotto della volontà», capriccioso ed arbitrario. E questo, secondo l’autore, è «uno dei fondamentali cespiti del nichilismo giuridico». Già: ma cos’è il suum? Quale regola determina quel che spetta a me, a te, a lui, e a tutti gli altri? Una cosa è stabilire «a ognuno secondo i bisogni, da ciascuno secondo le capacità»; altra cosa è dire «a ciascuno secondo il merito». La prima misura lampeggia sugli scudi del comunismo; la seconda è scolpita sul frontone delle società liberali. Ritenere come fa Possenti che nella vita sociale le due regole si svolgano gemelle, è mettere insieme cose che si contraddicono. E la contraddizione non è certo di buon viatico per una ragione che si vorrebbe «retta». A proposito di ragione diritta. Veniamo avviati per torti pensieri quando si ritiene che l’«antefatto dell’empito nichilistico» pulsi nel cuore della costruzione kelseniana, e precisamente lì dove Hans Kelsen insegna che «le norme giuridiche possono ospitare qualsiasi contenuto»; il che, per Possenti, è la gelatina in cui «l’ideologia della tecnica che si pensa come volontà di potenza» alleva i suoi microbi più micidiali. A dire il vero Kelsen non fa «ideologia», ma scienza del diritto, e chi fa scienza piglia la realtà per quella che è, espone e non valuta, non prescrive cioè un diritto che ha valore (perché è giusto), ma descrive un diritto che è valido (perché esiste). Valore e validità sono cose diverse. La dottrina kelseniana è tutta qui: in una concezione descrittiva del diritto e non in una concezione prescrittiva della giustizia. Ora, per contestare un sistema di proposizioni descrittive bisogna dimostrarlo inesatto, e non già dichiararlo ingiusto. Da quale inesattezza muove la critica a Kelsen? Per dire: è vero o è falso che nel tempo le regole del diritto hanno sigillato tanto la schiavitù quanto la libertà? È corretto o sbagliato dire che sia la proprietà privata sia la collettiva hanno trovato ricetto nelle sue norme? E se tutto ciò fosse vero, perché mai – in sede di accertamento – rifiutarsi di concludere che il diritto può servire gli scopi più diversi? Kelsen è seduto sotto tali interrogativi e, paziente, attende ancora una risposta.

Di Gaetano Pecora

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