Una società aperta per l’Italia. A colloquio con Sebastiano Bavetta (L'Impresa (Il Sole 24 Ore))

di Massimiliano Cannata, del 5 Febbraio 2014

da L’Impresa (Il Sole 24 Ore) del 5 gennaio

Il messaggio di fondo del saggio Il vantaggio delle libertà (ed. Rubbettino) di Sebastiano Bavetta e Pietro Navarra (che insegnano rispettivamente Economia politica all’Università di Palermo ed Economia del settore pubblico presso l’Università di Messina, di cui lo stesso Navarra è rettore) si può riassumere in una battuta: bisogna riaffermare la centralità della persona per favorire la rinascita economica, morale e sociale dell’Italia. Lo strumento per raggiungere un obiettivo così ambizioso è la libertà. Un concetto difficile da maneggiare e sicuramente affascinante, su cui il pensiero filosofico ha speculato fin dal suo sorgere. Analizzarlo in chiave economico politica è l’aspetto di maggiore interesse e attualità, che ci consente di entrare nell’ottica di un più ampio lavoro di ricerca a cui gli autori, entrambi visiting professor presso l’Università della Pennsylvania, lavorano da molti anni, alimentando il dibattito internazionale su questi temi. «L’idea di libertà che portiamo avanti insieme a Pietro Navarra – spiega Bavetta a “L’Impresa” nel suo studio palermitano – consiste nella possibilità di realizzare il proprio progetto di vita. Per farlo è necessario che le istituzioni siano poco invadenti, ma anche che le persone siano capaci e disponibili a disegnare un percorso originale e a sopportarne i costi. È interessante osservare che la realizzazione di questa libertà permette il raggiungimento della felicità, poiché la realizzazione dei proprio sogni è ciò che ci rende felici». Finalmente la felicità… da tempo non si sentiva pronunciare questa parola, soprattutto legata a un’idea di libertà che parte dall’autonomia, dalla responsabilità e dal valore dell’individuo nell’essere protagonista della propria vita professionale e personale.

Professore, il capovolgimento di logica e di visione che il saggio propone non è di poco conto. Sembra utopia pura se guardiamo alla realtà storica e politica non solo dell’Italia di oggi, schiacciata da interessi e pressioni. Quali sono le priorità, affinché la costruzione di “una società aperta” possa diventare realtà?
Posta in termini di priorità da affrontare la creazione di una società libera sembra sia un tema politico e istituzionale. In realtà lo è solo in parte, perché esiste un approccio diverso. La costruzione di una società libera passa anzitutto attraverso l’assunzione di responsabilità individuali nella nostra vita sociale e attraverso la realizzazione di quei comportamenti che, nelle riviste scientifiche, si chiamano “pro-sociali”. Per capirci: uno studente che sostiene l’esame scritto senza copiare, un dipendente pubblico che ha il coraggio di dire no a direttive inopportune quando non illegittime, un cittadino che adempie ai propri doveri fiscali, creano libertà.

La proposta liberale che avanzate si differenzia sia dalle posizioni del liberalismo classico sia dalle analisi offerte in alcune recenti pubblicazioni dagli economisti Alberto Mingardi e Luigi Zingales. Ci può spiegare in che senso?
Il liberalismo classico ha sempre difeso l’idea che la libertà sia assenza di vincoli, che si traduce nella dimensione di uno Stato non invadente. Di certo, la libertà ha a che fare con la non intrusione dello Stato nella nostra vita. Ma attenzione: dobbiamo comprendere che la libertà, intesa in un’equilibrata ottica liberale, si identifica con la possibilità di esprimere la propria individualità in maniera originale. Il liberalismo classico sostiene che, qualora lo Stato non sia invasivo, è possibile manifestare la propria individualità. A noi sembra che storicamente non sia necessariamente così.

Ad esempio?
Prendiamo il caso della Rivoluzione Industriale in Inghilterra. Allora le istituzioni erano invadenti e inadeguate a tutelare le aspirazioni delle persone a costruire, con la loro imprenditorialità, un percorso di crescita personale e materiale. L’affermazione della libertà, la creazione di istituzioni non invadenti e rispettose dei cittadini, è avvenuta attraverso l’ostinata determinazione dei singoli individui a realizzare il proprio percorso di vita. In questa ostinazione c’è la manifestazione della libertà come possibilità di esprimere la propria individualità in maniera originale. Se le persone non fossero state motivate, le istituzioni non sarebbero mai cambiate da sole. A me pare che l’impegno personale al cambiamento istituzionale non sia tenuto nel dovuto conto dal liberalismo. Una mancanza che è stata pagata al prezzo di una limitata efficacia politica.

Se non basta contenere l’invadenza dello Stato per dare ossigeno a una società che si possa definire realmente aperta, che cosa altro occorre?
In termini più generali, va detto che le istituzioni non nascono già adattate al buon funzionamento dei mercati e della società e programmate per rispettare la libertà e l’espressione originale di ciascuna persona. Al contrario, le istituzioni si evolvono in senso favorevole alla libertà solo se la società dà adeguato spazio all’affermazione dell’individualità e se ciascun individuo, per proteggere questa affermazione, pretende istituzioni non invadenti e si impegna a costruirle con il proprio comportamento. I nostri mali sono in larga parte connessi all’asfissia dell’affermazione dell’individualità. Poiché in Italia in molti si avvantaggiano di uno Stato invadente e del relativo favore che incontrano tante regole non pro-sociali, l’affermazione dell’individualità è limitata con ripercussioni significative sulla prosperità materiale e immateriale, soprattutto oggi che la società offre incredibili possibilità alla manifestazione dell’originalità, impensabili sino a venti o trent’anni fa.

Molti sono i dati interessanti contenuti nel lavoro, a cominciare dal primo: l’impoverimento delle famiglie. Dal ’91 si è registrata una flessione del 2,4% della ricchezza. Per comprendere questo declino, che al Sud è ancora più drammatico, non basta certo la scienza economica…
La scienza economica ha peccato di presunzione ritenendo che l’esuberanza e l’imprevedibilità dei comportamenti delle persone potessero essere compresse entro schemi formali, fondati sull’ipotesi che l’uomo sia un essere razionale. Ma c’è di più: secondo me, non siamo stati in grado di vedere l’arrivo della crisi soprattutto perché ci è mancata la prospettiva storica e abbiamo ritenuto che il miracolo della crescita degli ultimi due secoli fosse una nuova forma, ormai acquisita, della condizione umana sulla Terra. In realtà, esiste un problema di rendimenti della tecnologia e non è necessariamente detto che la crescita sarà sempre garantita. I numeri forse più allarmanti sono però quelli che riguardano la fiducia nelle istituzioni e i livelli dell’istruzione, che dimostrano la totale assenza di mobilità sociale. Un paese “bloccato” come è l’Italia può avere futuro? I dati sulla fiducia nelle istituzioni e sui livelli di istruzione sono allarmanti, è vero. Ma il campanello più drammatico lo suonano i dati sull’impatto della libertà. Se la Sicilia avesse lo stesso livello di libertà della Lombardia, il reddito pro-capite e la felicità dei suoi abitanti sarebbe significativamente maggiore. Non cambiando atteggiamenti, non introducendo comportamenti pro-sociali diffusi, non innovando istituzioni inadeguate per la libertà e per la possibilità di affermare il proprio sogno, i siciliani stanno scegliendo loro malgrado, una vita meno prospera e meno felice dei lombardi e stanno anche condannando la Sicilia all’irrilevanza politica ed economica in Italia, in Europa e nel mondo.

Proviamo a rimanere sulla definizione della crisi cercando di non ripercorrere le tante ricette “sterili” già sentite. Qual è il nesso che lega la morale, l’economia e la giustizia sociale?
La convivenza in una società si fonda su un’idea di giustizia. Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale e sino agli anni ’70, l’idea di giustizia prevalente in Occidente era la seguente: la ricchezza accumulata conta relativamente poco per il successo economico, il lavoro è la chiave per la prosperità materiale e immateriale. In quella società tutti avevano una chance di entrare a fare parte della classe media. Da trent’anni a questa parte il quadro è cambiato. La ricchezza accumulata conta molto, come nell’Ottocento, e il lavoro non assicura un’opportunità per diventare benestanti, per curare i propri genitori adeguatamente e mandare i propri figli in scuole decenti. L’idea di giustizia che ha prevalso nella seconda metà del Novecento e che è stata architrave della nostra società è sotto pressione e si sta pericolosamente piegando sotto il peso di forze storiche ineluttabili come
la globalizzazione e l’evoluzione tecnologica.

Si può arrestare questa deriva?
L’Occidente, in generale, ha reagito male a questa pressione, perché ha utilizzato la politica per correggere le diseguaglianze che la storia recente ha contribuito a creare. Essendo un’attività redistributiva, la politica ha tagliato il legame tra merito e successo economico, aggravando – invece di ridurre – il senso di ingiustizia. Ecco perché la crisi attuale è anzitutto una crisi morale ed ecco spiegato perché la soluzione sia ridurre il ruolo dello Stato: per recuperare un legame tra merito e risultati e restaurare un’idea di giustizia realizzabile nella nostra società.

La tecnologia è un’altra parola chiave, su cui insistete molto. Il valore aggiunto dell’innovazione – a detta di molti osservatori – si sta smorzando, con quali conseguenze sul nostro sistema economico e sulla competitività?
Non direi che il valore aggiunto dell’innovazione si stia smorzando. Se osserviamo settori come le biotecnologie o le energie alternative, possiamo accorgerci che il valore aggiunto offerto dall’innovazione rimane molto forte. Il problema è che i costi per realizzare l’innovazione sono cresciuti esponenzialmente. Gli investimenti necessari per l’avanzamento tecnologico sono enormi e le ricadute sociali dell’innovazione minori. Le conseguenze sono numerose e importanti.  La crescita dell’economia probabilmente non terrà più i ritmi degli anni ’60 e i costi dello stato sociale cresceranno. Dal punto di vista della politica economica bisognerà riformare le scuole e le università per garantire un’adeguata offerta di capitale umano, accrescere la competitività per mantenere elevata la propensione a innovare e ridurre le rendite che la presenza dello Stato impone e che frenano la corsa tecnologica delle imprese.
Poi, bisognerà immaginare politiche monetarie che controllino l’inflazione, cercando di mantenere bassi i tassi di interesse, altrimenti i costi dell’innovazione potrebbero diventare proibitivi.

Nel saggio viene richiamato un recente intervento del politologo Ernesto Galli Della Loggia che denuncia le ragioni di fondo che hanno impedito il diffondersi in Italia di una cultura autenticamente liberal democratica. Di chi è la colpa di tutto questo?
Non si tratta di assegnare meriti o colpe, semmai di capire cosa può servire a trasformare la nostra società in senso liberale. Il libro insiste su un punto: il liberalismo non si affermerà per effetto delle riforme dall’alto, ma sulla spinta di un’assunzione di responsabilità da parte di tutti a ridurre l’ingerenza dello Stato nelle nostre scelte. Ciò che viene auspicato è una forma di “leadership diffusa”, che significa: tanti uomini e donne che, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e del proprio ruolo – grande o piccolo –, siano capaci di trasformare la realtà che li circonda rendendola il riflesso del disegno di vita, che hanno consapevolmente deciso di realizzare. Questa è la più grande rivoluzione liberale che l’Italia dovrebbe oggi consentire. Ancora una volta, sono costretto a ribadire che non dipende solo dalla politica, perché le persone devono dare un contributo.

È possibile misurare autonomia, spirito di iniziativa, visione del futuro? In altre parole, esistono degli indicatori utili a fornire indicazioni a chi governa per tentare di attuare i suggerimenti contenuti nella vostra proposta?
La ricerca che sto conducendo all’University of Pennsylvania, assieme a Pietro Navarra, dimostra che l’autonomia si può misurare e che ha un impatto sulla performance della società. Idee simili alle nostre sono già state portate avanti in Europa da leader illuminati, quali Tony Blair, che hanno messo l’idea della scelta al centro del disegno della società e delle riforme dei servizi pubblici. In Italia ci sono stati alcuni esempi, soprattutto in Lombardia, e una smorzante iniziativa in Sicilia. Purtroppo quanto di buono è stato fatto, molto spesso, è stato dissipato dall’animosità del dibattito politico e da una visione della cosa pubblica in cui l’interesse collettivo non sempre è rimasto al centro dell’attenzione.

Nella “società aperta” da voi disegnata, quale deve essere il perimetro dello Stato e che spazio di intervento deve avere il welfare state?
La leadership diffusa di cui parlavo è importante per l’affermazione della libertà. Tuttavia, senza strumenti di coordinamento dei comportamenti individuali, senza cioè sistemi che premino i comportamenti virtuosi e puniscano quelli viziosi, la leadership diffusa difficilmente avrà successo. Allo Stato spetta il compito di delineare le istituzioni che coordinano i comportamenti delle persone e garantire che il campo di gioco sia livellato, in modo che nessuno sia ingiustamente avvantaggiato.

Guardiamo all’Europa. Va di moda attaccare Bruxelles per le politiche di austerità. Michele Salvati, che non è certo un liberista, ha fatto notare che è inutile insistere sulla debolezza della domanda auspicando interventi del soggetto pubblico, faremmo meglio a concentrarci sul lato dell’offerta, le imprese competitive, la qualità, l’efficienza della Pa, la governance del settore pubblico. È d’accordo con questa posizione?
Sono d’accordo con le affermazioni di Salvati. Aggiungerei che molta della retorica contro Bruxelles nasconde la difesa di interessi costituiti e non è basata su una convincente analisi della realtà economica che stiamo vivendo. Ma c’è di più. Larry Summers – economista ad Harvard e già ministro del tesoro americano  con Clinton – ha recentemente sostenuto che una parte della crisi si spiega con una flessione della domanda. Non posso escludere che abbia ragione. Il problema è che fare. La proposta che Summers avanza – come tanti sostenitori delle tesi keynesiane, riapparsi come funghi all’indomani del 2008 – è quella di fare investimenti pubblici, approfittando dei bassi tassi di interesse.Indebitandosi al 4-5% a lungo termine si sviluppa la domanda e si compensa la maggiore spesa pubblica con la crescita dell’economia. La proposta sarebbe stata forse accettabile in un altro tempo, quando il problema della maturità tecnologica non mordeva. Oggi le economie tecnologicamente mature hanno difficoltà a crescere nel lungo periodo con tassi sufficienti a ripagare il maggiore debito contratto per le opere pubbliche. È anche per questo che, a mio parere, le politiche dal lato dell’offerta appaiono più convincenti oltre che più efficaci.

In molte fasi dell’anno, lei si trova a lavorare in America. Obama ha fatto ricorso a grosse iniezioni di capitale pubblico per far ripartire l’economia. Non siamo di fronte a una contraddizione per un paese che dovrebbe per cultura e tradizione osservare e praticare in maniera integrale i dettami dell’economia liberale?
Obama è il presidente più distante dai valori costitutivi della società americana che sia stato eletto nella storia. Il suo successo elettorale è figlio della diseguaglianza econ
mica crescente e degli errori dei suoi avversari. In questo senso il successo di Obama riflette la difficoltà odierna del liberalismo a essere politicamente rilevante. Anche se la pubblicazione di questo libro va letta
come un tentativo di restituire credibilità politica al liberalismo in Italia, sono convinto che argo-menti simili si potrebbero sostenere anche in America.
 
Chiuderei questa conversazione, prendendo spunto dalla dedica del saggio. Perché i giovani dovrebbero scegliere di vivere in Italia?
L’Italia è uno dei paesi più belli del mondo con un patrimonio culturale unico e un’alta qualità della vita diffusa anche nella provincia
meno benestante. Il problema è che tutto ciò non basta a garantire una vita pienamente realizzata. Per essere felici è importante il clima, è importante il paesaggio, contano le forme classiche e razionali dell’architettura rinascimentale e le armonie del “Va Pensiero”. Ma serve soprattutto la possibilità di realizzare il proprio sogno di vita. Oggi l’Italia non offre questa opportunità. Il sogno si scontra tutti i giorni con rendite, interessi costituiti e ostacoli burocratici. Se il nostro paese non metterà questa pietanza nel suo menu, perché i giovani dovrebbero scegliere di vivere in Italia? In regioni come la Sicilia, dove insegno e risiedo, la possibilità di realizzare il proprio sogno di vita non è prevista, per questo i giovani più istruiti se ne vanno ormai da diversi anni. Ecco di fronte a questo fenomeno di vera e propria “desertificazione antropica”, direi che alla mia generazione spetta ancora un compito, forse il più arduo: permettere a chi verrà dopo di scommettere che il proprio sogno possa realizzarsi anche in Italia. È una sfida importante che stiamo perdendo. Attenzione perché non ci resta molto tempo.

di Massimiliano Cannata

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