Un viaggio nella memoria (Quotidiano della Calabria)

di FRANCO DIONESALVI, del 12 Febbraio 2013

dal Quotidiano della Calabria del 10 febbraio 2013

Si può raccontare un posto, un luogo, un contesto temporale in tanti modi. Si può scegliere l’approccio storico-saggistico. E allora ci si pone nell’ottica di una definizione il più possibile oggettiva, facendo riferimento a dati ed episodi che siano realistici, provati o almeno credibili. Magari puntando a ricostruire, dalle testimonianze di cui si dispongono, i gesti e le vestigia di un tempo passato, e da questo provare a fare scaturire il presente, e a questo da quello trovare significazione, senso e giustificazione. Oppure si può scegliere la strada della finzione. Di quegli espedienti narrativi, peraltro da tempo codificati, che costituiscono l’ossatura della grande narrativa tradizionale, del romanzo classico. Incastonare fatti e personaggi in una trama che si dispieghi sapientemente e con misura, viva di delicati equilibri interni fatti di sviluppi e di attese, di sorprese e di rivelazioni, di rallentamenti e velocizzazioni sempre allo scopo di tenere avvinto il lettore all’affabulazione narrativa.
Ma c’è un’altra strada, più difficile e perigliosa, più “impopolare”, al punto che solo pochi ardimentosi scelgono di percorrerla.È quella della poesia. Ossia di una narrazione che mandi in crisi la stessa, scolastica, distinzione fra prosa e poesia: e si regga non sull’intreccio narrativo, ma sul flusso espressivo, sull’urgenza del dire, sulla febbre dell’ispirazione. È il percorso che ha scelto Daniel Cundari, già segnalatosi per intriganti prove di scrittura e di poesia che, non casualmente, spaziavano dal dialetto calabrese allo spagnolo. In questo libro che sta per uscire nelle edizioni Rubbettino, e che qui anticipiamo, c’è proprio il respiro e l’incedere della poesia. Che non va per trame ma per frammenti, non per arterie ma per grumi. E così più che raccontare attraversa, più che dedurre intuisce, più che descrivere spiazza. Qualche esempio? «Da bambino passavo l’estate sulle spiagge morene di Coreca, con la smisurata scogliera frangiflutti che riparava i miei progetti futuri dai cavalloni notturni. Stretto tra le caviglie di mia madre, osservavo incollato alla ringhiera il tumore buio delle tenebre e origliavo le allegre canzoni che provenivano dai falò». O ancora: «Un giorno qualcuno dovrà pur fare i conti con questi macigni di parole. Con chi gettava i propri versi nelle acque argentate dello Stretto o nei golfi scarlatti che sperdono la loro fata Morgana tra le onde mitigate dagli zefiri serali. Lacrime e sangue, sorrisi e carezze, lontano dalle baùtte delle muse bugiarde».
Gli episodi che compongono il libro, i frammenti di percezione visionaria e allucinata gravida di ricordi da sedimentare e indigeribili, a un certo punto sembrano svelare un sottotesto di un ipotetico interlocutore tedesco a cui l’autore si rivolge. E, accompagnandolo in un viaggio in Calabria, o forse semplicemente sedendo a tavola insieme a lui e conversando, parla della regione. È presente l’immagine giornalistica, il cliché stereotipato della regione della ‘ndrangheta, giungla dell’illegalità dominata dal malaffare. A questa visione pregiudiziale Cundari risponde, senza negare le violenze e le atrocità, ma calandole in una realtà complessa, forte e contraddittoria, anche violenta, ma più vera, più umana. C’è la cerimonia di iniziazione al santuario di Polsi,maci sono anche le solitudini luminose della Sila; le ragazze che vengono trovate legate a un albero, ma anche le bellezze crude e selvagge di Isola Capo Rizzuto e di Tropea. E c’è il viaggio nella memoria, i ricordi di infanzia e di adolescenza che introducono tutta una galleria di personaggi, giovani e vecchi, paesani e cittadini; tutti appena abbozzati, ma intensi ed espressivi, come abbagliati sotto un sole che li incendia e li immortala in un flash spietato. Vividi per un attimo, e poi subito archiviati come citazioni letterarie. Un viaggio crudele e sanguigno, e insieme aereo e ineffabile, nei meandri della propria memoria. A scovare un filo, un possibile legame che dia finalmente un senso a una terra e al se stesso che scrive. Un filo di sangue e di luce infine da cogliere. Da fermare nelle proprie mani, da fissare nelle proprie pupille per un attimo. Per poi finalmente disperderlo nel vento.

DI FRANCO DIONESALVI

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