Un siciliano in Etiopia (La Repubblica)

di Amelia Crisantino, del 3 Maggio 2013

Da La Repubblica del 3 maggio 2013

La campagna d’Etiopia appartiene alle pagine rimosse della storia d’Italia. Preparata dal 1932 e scoppiata nel 1935, allestita con molta accortezza dal regime fascista che convoglia verso l’impresa ogni risorsa bellica e psicologica, è una guerra di aggressione sinistramente moderna: la propaganda la rende popolare collegandola all’antica grandezza di Roma, mentre l’aviazione piega la resistenza etiope grazie all’uso dei gas asfissianti.
Ci sono voluti molti decenni prima che gli storici accertassero verità scomode, che poco s’accordano con l’immagine auto assolutoria degli «italiani brava gente». La guerra dimenticata torna adesso in primo piano, raccontata dagli album fotografici di alcuni uomini che con vari ruoli vi hanno partecipato: nel libro “Lo scrigno africano. La memoria fotografica della guerra d’Etiopia custodita dalle famiglie italiane”, a cura di Mario Bolognari (Rubbettino,152 pagine, 17 euro), che oggi alle 18 si presenta all’Istituto Gramsci, troviamo una selezione delle foto scattate dal medico Vincenzo Arlotta, nato inAmerica da emigranti siciliani ma tornato a Messina ancora bambino.
Arlotta ha lo sguardo da etnografo, le sue foto restituiscono un’Etiopia molto lontana dalla propaganda fascista: sulla pellicolavengono fissatele abitazioni, l’artigianato, i luoghi sacri ma anche la guerriglia e la rassegnata sottomissione dei vinti.
Il messinese Francesco Patanè ha il ruolo di autista, ha solo la licenza elementare ed è un fascista convinto: si esalta perle vittorie, rappresenta se stesso come protagonista e le sue foto stabiliscono i ruoli. Il soldato è sempre accanto alla macchina, alla tecnologia che rappresenta la forza dell’Occidente; gli indigeni sono posti, anche fisicamente, in po sizione subalterna. Alcune fotografie ritraggono anche esecuzioni e torture, che diventano monito per i ribelli e anche esibizione di violenza; un «io c’ero» che testimonia la piena adesione all’impresa coloniale. Pietro Ferrario è un milanese siciliano per scelta, dirigente della Michelin italiana che vive a Taormina: le sue foto ritraggono il mondo degli italiani in Etiopia con una costante predilezione per l’idea del progresso tecnico portato dagli italiani: quasi una giustificazione per la loro presenza in terra africana.
Francesco Monastero, a cui viene dedicata la mostra fotografica nei locali dell’Istituto Gramsci – ai Cantieri culturali della Zisa in via Paolo Gili – sino al 12 giugno, è stato definito «il Robert Capa» di Ciminna. Ha realizzato centosei immagini con macchina fotografica a obiettivo fisso e stampa «a contatto», la sua storia merita di essere raccontata. L’infermiere portaferiti Francesco Monastero nasce a Ciminna nel gennaio 1905, frequenta un corso di parasanitario a Palermo, lavora in un ospedale cittadino. Una vita come tante. Ma ostinatamente rifiuta il tesseramento al partito fascista e viene richiamato alle armi. 114 aprile 1935 parte da Palermo con il 171° battaglione, arriva a Massaua dopo otto giorni e rimane nella zona delle operazioni sino al 4 ottobre 1936. Le sue foto raccontano l’Africa Orientale Italiana, sono un atto consapevole che nasce dall’esigenza di dare un significato a quanto accade. In Sicilia il fratello maggiore gli aveva trasmesso la passione per la fotografia, e nell’esiguo bagaglio del soldato Monastero ci sono tre macchine fotografiche: servono a documentare come la sua storia personale si intreccia con la Storia, come la guerra entra nella vita di un uomo semplice.
Monastero non è soltanto l’autore delle immagini, sviluppa e stampa le foto. Il figlio Pietro ha raccontato che, per misurare il tempo necessario a imprimere le immagini, nell’oscurità della tenda da campo il soldato-fotografo legava e accendeva assieme alcuni fiammiferi. Una suora del reparto, che prestava aiuto nell’assistenza ai feriti dell’ospedale da campo, lo aiutava a procurarsi il materiale necessario. L’uomo stampa sulla carta che riesce a trovare, di qualità e dimensioni variabili. Sistema le foto su un album da disegno, le fissa con nastro adesivo o con colla. Riempie così quattro album, ogni foto corredata da didascalia. Con questi mezzi di fortuna il soldato -fotografo crea una scrittura per immagini che racconta la guerra, seleziona gli episodi e li lega fra loro, compie un consapevole atto narrativo che lo distanzia dagli altri militari-fotografi.
Gli album fotografici di Francesco Monastero sono stati ritrovati pochi anni fa dalla nipote Giovanna – che assieme a Santo Lombino cura il catalogo della mostra-in un armadio di casa. Nell’introduzione Giovanna Monastero ricorda come, da bambina, qualche volta aveva visto il nonno sfogliare gli album alla scrivania dello studio, e poi riporli in un cassetto chiuso a chiave. Una lezione sulle fonti della storia contemporanea accende la curiosità e ravviva il ricordo di Giovanna, che con la scoperta dei quattro album riporta alla luce uno straordinario diario fotografico di guerra, antiretorico negli anni in cui la retorica falsava la realtà con tragica disinvoltura.

Di Amelia Crisantino

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