“Uccisi per la carità” (Il Quotidiano della Calabria)

di Antonio Cavallaro, del 17 Febbraio 2014

da Il Quotidiano della Calabria del 15 febbraio

“Gioite dunque, fratelli miei carissimi, per la felicità che avete avuto in sorte e per l’abbondanza della grazia di Dio verso di voi. Gioite, poiché siete sfuggiti ai molteplici pericoli e naufragi di questo mondo sballottato dalle onde. Gioite, poiché avete guadagnato il tranquillo e sicuro rifugio di un porto ben riparato, al quale molti desiderano arrivare ed a cui molti tendono con parecchi sforzi, e pur tuttavia non vi giungono. Inoltre, molti, dopo averlo raggiunto, ne sono esclusi, poiché a nessuno di loro è stato concesso dall’alto”. Chissà se queste parole, scritte da San Bruno di Colonia fra le montagne della Calabria e indirizzata ai suoi compagni monaci rimasti a Grenoble, saranno echeggiate nelle orecchie dei suoi figli certosini di Farneta in quella terribile notte fra l’1 e il 2 settembre del 1944…
Farneta, Lucca, è il luogo in cui sorge la Certosa dello Spirito Santo, fondata ai piedi delle colline della Lucchesia nel 1340 per volontà di un ricco mercante lucchese. Insieme a quella di Serra San Bruno è uno dei due monasteri certosini maschili ancora attivi in Italia. Ma torniamo al nostro racconto.
È la notte del primo settembre. Sono le 23:15. I monaci si stanno dirigendo nella chiesa conventuale per il lungo ufficio della notte. Fuori dalle mura della Certosa la guerra è giunta al culmine. Siamo vicinissimi alla linea Gotica e gli alleati stavano prendendo Pisa e puntando verso Lucca. Nel monastero però sembra una notte come le altre. Tutto sembra svolgersi secondo quella regola rimasta praticamente immutata da circa un millennio.
Bussano alla porta. È un sergente delle SS. I certosini lo conoscono bene perché nei mesi precedenti aveva chiesto e ottenuto di poter ricevere, insieme da altri due compagni, assistenza spirituale dai monaci. Si era più volte confessato con il padre maestro e aveva persino ottenuto di poter assistere dalla tribuna ad alcune celebrazioni. Il sergente dice di avere grande fretta e di avere con sé un pacchetto per il padre maestro. Il povero fra Michele non ha ragione di sospettare alcunché – è puro come una colomba, ma gli manca l’astuzia del serpente – e apre il pesante portone della Certosa. Immediatamente irrompe una squadraccia di soldati che rinchiude in portineria il frate e mette a soqquadro il monastero. Ma alla ricerca di cosa?
Il sergente e i suoi due camerata non erano, come i poveri monaci avevano ingenuamente creduto, persone alla ricerca di ristoro per le anime, ma spie tedesche incaricate di monitorare alcuni movimenti sospetti che avvenivano tra le mura di quel monastero. Da qualche tempo infatti il procuratore del convento, con la complicità del priore aveva cominciato a soccorrere famiglie di ebrei, di uomini vicini alla Resistenza, di nemici politici del regime, ma anche di semplici renitenti alla leva. Dapprima erano state messe a disposizione dei rifugiati case coloniche di proprietà della Certosa, successivamente i monaci cominciarono a ospitare tra le mura del convento i fuggitivi. La rete di assistenza del monastero arriva presto ad accogliere fino a duecento persone. Al momento dell’irruzione fra le mura del monastero ve n’erano un centinaio.
Era opinione comune che la Certosa sarebbe rimasta immune da eventuali rastrellamenti o azioni di rappresaglia. Mai convinzione fu più illusoria. Quella notte vennero fatti prigionieri, oltre ai rifugiati, anche dodici monaci, sei padri del chiostro e sei fratelli laici (certosini a tutti gli effetti ma non sacerdoti, che in genere si occupano dei lavori manuali.
I monaci vennero fucilati nei giorni successivi, tra i rifugiati invece, i più robusti vennero inviati nei campi di concentramento, 32 vennero uccisi.
La vicenda dei certosini di Farneta rappresenta un piccolo ma assai significativo tassello di quella storia di resistenza operosa e silenziosa organizzata dalla Chiesa cattolica, specie italiana, e che (a dispetto delle continue polemiche sui silenzi di Pio XII) riuscì a offrire soccorso e salvezza a ebrei e perseguitati di varia natura. È una vicenda che potremmo definire “bella” se non fosse così tragica, una storia esemplare che merita di essere conosciuta e che sarebbe rimasta forse sepolta, insieme a chissà quante altre simili, se Luigi Accattoli, vaticanista storico del “Corriere della Sera” non avesse deciso di raccontarla in un libro che esce in questi giorni per Rubbettino, intitolato “La strage di Farneta”.
I certosini per antica consuetudine non promuovono cause di canonizzazione di uomini e donne dell’ordine, per tale ragione questa vicenda di autentico martirio non era stata finora divulgata.
Nel libro, Accattoli, dopo attente ricerche d’archivio e interviste ai pochi testimoni superstiti, riesce non solo a ricostruirne non solo gli episodi salienti ma a far emergere in tutta la loro forza l’eroicità della virtù di questi uomini di Dio che, a causa della carità, affrontarono di buon grado la morte, attendendo dal loro Signore quel centuplo che il Vangelo promette.
Ad impreziosire il volume un importante documento inedito prodotto dall’Ordine nel 1999 su richiesta della Pontificia Commissione per la Commemorazione dei Testimoni della Fede del secolo XX, che si tenne al Colosseo il 7 maggio 2000 nell’ambito del Grande Giubileo.

di Antonio Cavallaro

“La perfezione della carità è un fine che va raggiunto con ogni mezzo”
ESCLUSIVO. Il Priore di Serra San Bruno, padre Jacques Dupont, sulla vicenda della strage

La vita del certosino è consacrata interamente alla preghiera. Riprendendo il racconto biblico, di Marta e Maria, le due sorelle che accolgono in casa Gesù, il certosino è sempre paragonato a Maria, la sorella che si siede ai piedi del Signore per ascoltarne la parola non preoccupandosi, al contrario di Marta, delle faccende domestiche. La vicenda di Farneta appare dunque ancora più eccezionale. I certosini di Farneta non solo pregavano per un’umanità ferita e abbrutita dalla guerra ma si impegnarono fattivamente per fornire aiuto e soccorso a ebrei e perseguitati politici. Fu un’eccezione, una violazione (per quanto  feconda) della regola e della vocazione monastica o una sua estrema attualizzazione?

In qualche modo la risposta è nella regola stessa dove è scritto che il fine della nostra vocazione è la perfezione della carità. I monaci di Farneta hanno praticato la carità in circostanze drammatiche, ma ciò non era una sostituzione della preghiera. Credo che non abbiano trascurato per niente la loro vita di preghiera. Una preghiera che non si incarna può rischiare di diventare un esercizio egoistico, estetico, astratto. Laddove i monaci di Farneta sono andati “oltre” la regola stato nell’accogliere nel monastero persone totalmente estranee al loro genere di vita, cioè una vita caratterizzata da una stretta clausura. Tuttavia, in questo, mi sembra poter dire che hanno fatto un discernimento acuto e approfondito: la clausura non è un assoluto che non può mai essere messo in discussione; è sempre un mezzo che permette di raggiungere il fine, ossia la perfezione della carità, come si è detto… e capita che questo fine si debba raggiungere aggirando in qualche modo il mezzo.

Il monaco offre ogni giorno la propria vita per la salvezza del mondo. Che rapporto c’è tra questo martirio quotidiano e il martirio che si consuma con l’effusione del sangue?

Si sa che la vita monastica è apparsa nella storia quando hanno cessato le persecuzioni e i martiri. Sapendo che il martirio è la prova suprema dell’adesione di fede a Cristo, qualche cristiano si è chiesto come esprimere tale radicale adesione, visto che non c’erano più persecutori. Così è nata la vita monastica come modo radicale di vivere il Vangelo, di seguire Cristo nella povertà totale, nell’obbedienza e nella castità. In una maniera esagerata – quindi non del tutto condivisibile, si è detto che il monaco sta nell’arena tutta la vita, mentre il martire doveva affrontare le bestie per qualche minuto. È vero che il monaco è chiamato a combattere – e lo stesso san Bruno lo riconosce (parla di una lotta faticosa) – non più contro bestie, avversari di carne e ossa, ma con il male che egli scopre nel suo cuore (vanità, egoismo, superbia, disprezzo dell’altro, collera, avarizia…), un male che condivide con tutti gli uomini. Perciò la sua lotta non è personale, ma è combattuta per liberare tutti i suoi fratelli e sorelle dal male presente nel mondo.

Quello di Farneta non è l’unico episodio di violenza contro un gruppo di monaci che la storia conosca. Durante il regno di Enrico VIII, in Inghilterra, vennero uccisi 18 certosini. Nel marzo del 1996, in anni molto vicini ai nostri, in Algeria, un commando armato sequestra e uccide sette monaci trappisti, decapitandoli e restituendo al monastero le teste. Perché il potere ha paura di uomini miti e inermi come i monaci?

Una prima risposta potrebbe essere: perché Erode ha massacrato i bimbi innocenti dopo la nascita di Gesù? Colui che viene da Dio o colui che cerca di essere vicino a Dio può fare scattare la paura in uomini di potere, perché percepisce in essi un’autorità superiore con la quale si sente a disagio perché teme che questa “autorità” possa rovesciare la sua. Peraltro è vero che – come è accaduto con Gesù – un uomo spirituale attrae le folle e ciò non piace tanto al potere. Detto ciò, si deve dire che i motivi che hanno provocato la persecuzione dei monaci non sono sempre identici. Nel caso dei certosini uccisi da Enrico VIII d’Inghilterra, si trattava di scegliere tra due concetti di chiesa molto diversa, una governata dal Vescovo di Roma, l’altra dal re d’Inghilterra. E i certosini non hanno voluto rinunciare al legame con Roma. A Farneta, tutto avvenne a motivo della guerra e della caccia ai partigiani e agli ebrei da parte dei tedeschi. In Algeria la faccenda di Tibhirine rimane ancora oscura, ma si può affermare che i monaci trappisti sono morti a motivo della loro decisione di rimanere presenti in un paese musulmano.

È noto che l’ordine certosino non promuove cause di canonizzazione, tuttavia i martiri di Farneta rappresentano una fulgida testimonianza per i cristiani di ogni tempo e di ogni luogo. Pensa che in questo caso si farà un’eccezione e i dodici certosini “uccisi per la carità” possano presto assurgere alla gloria degli altari ed essere posti come esempio per tutti?

Credo che da parte dell’ordine certosino non ci sarà nessuna procedura per avviare un processo di canonizzazione. Rispetteremo l’atteggiamento che da sempre abbiamo avuto, atteggiamento peraltro riconosciuto da Papa Benedetto XIV che ha detto: “Cartusia sanctos facit, sed non patefacit – La Certosa fa dei santi, ma non li mostra”. Direi che è stato così anche per san Bruno: non c’è stata nessuna richiesta di canonizzazione da parte dei certosini, ma dopo che sono state ritrovate le sue ossa, il Papa Leone X, tenendo conto della devozione e del culto già presente a Serra, ha dichiarato che si poteva inserire Bruno nel catalogo dei santi. La maggior parte dei certosini, canonizzati o beatificati, lo è stato a motivo di un servizio ecclesiale che ha svolto come vescovo (e quindi dopo essere stato costretti a lasciare il monastero). Peraltro i certosini inglesi uccisi da Enrico VIII sono stati riconosciuti santi martiri insieme a un folto gruppo di fedeli che ha versato il proprio sangue per fedeltà al Papa.

Intervista di Antonio Cavallaro

Clicca qui per acquistare il volume al 15% di sconto

Altre Rassegne