Tu chiamale se vuoi emozioni mascherate (L'Unità)

di Carmine Castoro, del 11 Gennaio 2016

Massimo Cerulo

Maschere quotidiane

La manifestazione delle emozioni dei giovani contemporanei: uno studio sociologico

Da L’Unità del 9 gennaio

Una montagna aspra e rocciosa, che incute timore, scalabile ma da pochi, con dovizia di attrezzature, grande coraggio e il suggerimento magari di qualche guida esperta. E una cripta: luogo segreto, quasi inaccessibile, carico di preziosità e bellezza, che si vela alla luce, e si dona solo allo sguardo degli esploratori più rispettosi e véneranti. Sono queste le due metafore spaziali che vengono in mente dopo la lettura di Maschere quotidiane. La manifestazione delle emozioni dei giovani contemporanei: uno studio sociologico (Rubbettino, pagg. 113, euro 13) di Massimo Cerulo, docente di Sociologia all’Università di Torino: saggio acuto che finalmente fa affiorare una dimensione critico-realistica e legittimamente apprensiva – in merito ai forti contrasti nel modo di percepire e di sentire la realtà esteriore ed interiore dei teenager, e non solo, di oggi. Contro approcci sonnolenti e giustificazionisti di tanti altri testi dello stesso settore che hanno molto sfocato la delicatezza di certe devianze e di certa apatia nel mondo giovanile contemporaneo.
FRENESIA DA MULTITASKING
La ricerca, basata su domande-interviste a 520, ragazzi di età compresa fra i 18 e i 25 anni (In maggioranza dorme), tutti frequentanti il corso di laurea triennale in Scienze politiche e/o sociali nelle città campione di Torino, Perugia, Cosenza e Palermo, evidenzia l’ambigua termodinamica di un tessuto sociale sempre pìù all’insegna della liquidità, della precarietà, della mutazione e della conservazione; capace, come nelle famose deduzioni di Simmel sull’individuo blasé, di esercitare un potere sussultorio, stressogeno, ipercompetitivo e fortemente mediatizzato, e dunque, spesso, anestetizzante, se non demolente, rispetto all’intimità in evoluzione di ciascuno. Felicità e gioia, infatti, sono gli stati d’animo dominanti, con percentuali che scavalcano anche il 30%, ma subito seguiti da rabbia (31,5% Perugia, 39% Palermo) e ansia, che sanciscono proprio l’incombente esigenza di essere multitasking, di reggere le accelerazioni impresse dal mercato, dalle mode, dai cambiamenti frenetici, fino al punto di mostrare affanno, trepidazione o, per rovescio, indifferenza, incoerenza o abbandono totale di quel patrimonio che si avrebbe da opporre, dentro, in termini di idee alternative, sincerità, tormenti e critiche. La ciclotimia emotiva sarebbe particolarmente evidente nelle donne che “inventano” una sorta di endiadi allegria-nervosismo, cioè coinvolgimento euforico e improvviso sovvertimento di umore anche in circostanze familiari; e nei maschi, la cui sensazione di “noia” si piazzerebbe al 4° posto oltre quelle suddette (con una punta de 20% a Torino). Fino all’installarsi di una vera e propria generazione NEET, «Not in Education, Employment or Training», ovvero i giovani che non sono inseriti in nessun percorso formativo, scolastico o professionale: una ipnotica de-securizzazione che non tocca solo le periferie o i quartieri degradati delle città, e che si rivela una stagnazione psicologica e operativa, diretto riflesso della crisi occupazionale e della inconsistenza delle agenzie istituzionali che dovrebbero farsi carico di un vuoto antropologico così abissale. Circa 2 milioni se ne conterebbero in Italia – secondo quanto riferisce Cerulo -, il 24% della fascia d’età interessata dal suo sondaggio, con un incremento dal 2012 trasversalmente distribuito in tutta la penisola. E allora, in questo quadro dai tratti disperanti, cos’è la montagna? Il sistema in cui viviamo, la rete dei dispositivi di potere che ci imbriglia; no, l’insieme dei pensieri, dei gusti e dei consumi ai quali è più facile conformarsi, i protocolli della comunicazione attraverso cui ci relazioniamo, decidiamo di esprimerci o di relegare nelle miniere della discrezione ciò che proviamo. Una sorta di Moloch sociale che si erge minaccioso, un’imperiosa gigantografia dell’esistente difficilmente violabile, forse più aggirabile o contemplabile che gestibile in prima istanza.
IL SANTUARIO INTERIORE
E cos’è, invece, la cripta? È il santuario dell’interiorità, il riparo delle nostre cose più proprie e inattingibili, la nostra biografia, le concrezioni della nostra storia personale, che, tendenzialmente, rifuggono dai riflettori dei contesti pubblici,ì tranne quando le si può condividere con una cerchia selezionata e un notevole margine di auto-tutela o, magari, quando uno show di grande popolarità ci ordina di svestircene e di “confessare” le esperienze più sordide e banali, pena l’anonimato o la perdita di un premio. Sulla linea di galleggiamento, sul punto di frizione fra questi due mondi, fra questi due apparati, il primo di cattura, per dirla alla Deleuze, rappresentato dallo Stato e dalle sue emanazioni infrastrutturali, e il secondo di differenza, per dirla alla Derrida, rappresentato dall’identità privata di ognuno, scattano quelle che Cerulo sigilla come procedure di “mascheramento”. I ragazzi non esternano, non dicono tutto, non si mostrano conflittuali, turbati, problematici, il flusso della loro coscienza tende a eclissarsi, quasi ad amalgamarsi con uno spirito adattivo al gruppo o ai dettami di più ampio spettro della società tout court. Incolpando quest’ultima, nelle loro testimonianze più vivide e intense, usano verbi come “reprimere”, “obbligare”, “imporre”, rispetto ai quali la rigida appartenenza, lo sradicamento della propria soggettività, quando non la più tenue e silente delle sue apparizioni, vengono preferiti al dare fastidio, all’attirare troppo l’attenzione su di sé, alla “paura di rovinare i rapporti”, accontentandosi di una “felicità artificiale”, di un “benessere truccato”. In questo gelido, pragmaticamente conveniente e opportunistico mulino che conferisce il giusto taglio a ciò che emerge dalle scabrosità del proprio io, Cerulo identifica il “decoro emotivo”: una regolazione delle proprie tensioni, uno scambio alla pari con chi osserva e giudica attraverso accensioni e spegnimenti ben calibrati del proprio temperamento, un “quieto vivere” che intensifica una de-simbolizzazione dei rapporti umani e rimanda solo una finta lucentezza del libero arbitrio e della convivenza. Una 23enne di Torino così lucidamente chiosa: “Invece di essere spinti a migliorare o rendere le nostre debolezze punti di forza, si preferisce “insabbiarle” e dimostrare che “va tutto bene” o, peggio, che si è superiori o più vincenti di altri”. Alla domanda di Cerulo e del suo team: “Sei solito manifestare quello che senti dentro?”, le città si allineano su cifre negative. A Palermo il 45% dei no, il 46,5% di Cosenza sceglie la risposta a volte-dipende; gli uomini si nascondono più delle donne, con la punta palermitana del 48%.
OMOLOGATI PER SOLITUDINE
Le cerimonie-feste, l’università, la famiglia e i luoghi “terzi” di socialità (pub, caffè, parchi etc.) sono nell’ordine i posti o le circostanze in cui più esplicitamente si cade in un voluto oblio di sé. Torino sembra la città più “aperta” di tutte. I luoghi di lavoro pure (ma per evidente scarsa frequentazione, soprattutto al Sud, e per la mancanza di chance di guadagno). I maschi del Sud sarebbero meno esitanti nel manifestare la propria persona, a conferma del fatto che lì ancora vige un pesante pregiudizio di riservatezza e pudore per le donne a sfidare, per così dire, la piazza.
Per non soffrire la solitudine, insomma, e per non essere mal considerati, l’omologazione è vissuta come sopravvivenza. L’integrazione come supina accettazione. L’orologio totalizzante delle abitudini, delle etichette, delle inclinazioni in cui tutti si ritrovano per trend di massa è visto come un diapason comunitario, come un grande sincronizzatore delle tonalità, delle diversità, delle declinazioni più proprie, linguistiche, comportamentali e affettive. La polis trasformata in un colossale gioco di ruolo, o in un ancora più inquietante Risiko, dove il fronte di battaglia e di conquista parte innanzitutto da un se stesso militarmente deprivato grazie alla piccola efficace stregoneria di una censura preventiva. Come sottolinea Cerulo con uno stile sempre teso e coinvolgente: “(i giovani) non cercano rivoluzioni, non vogliono le prime pagine dei giornali: ambiscono alla tranquillità quotidiana, a vivere con meno problemi possibili. In molti casi si sforzano di essere irenici, cercando di creare il minor numero di sofferenze alle persone care”. Sono, dunque, fisiologicamente portati ad essere Spietati, Camaleonti (“Zelig di società”), al massimo Alchimisti nell’acconciare frammenti di pseudosaperi sportivi e sentirsi dei titani contro la sorte con scommesse calcistiche e gioco d’azzardo.
LA LIBERTA’ NON DISEGNA UTOPIE
La libertà, un tempo appannaggio proprio delle età più fresche e spensierate, non disegna e non designa più utopie, mondi possibili, nuove cornici di senso, non rigenera e non ri-gerarchizza più i valori dominanti con la forza della immaginazione e della partecipazione attiva, ma è solo un aggregatone di particelle, facilita l’osmosi con i diktat carsici delle caste e delle corporation, promuove e paralizza al tempo stesso, mobilita e calcifica, agita e recita, sulle assi di un palcoscenico dove va in scena sempre lo stesso psicodramma e dove il Grande Inganno collettivo bypassa in modo indolore ogni intenzione locale. Seppur Cerulo guardi alla fine con eccessivo disincanto alle tesi di filosofi come i Francofortesi e Bourdieu, forse è proprio dalla lezione anche di questi che si dovrebbe ripartire. O dal Derrida di Storia della menzogna (Castelvecchi) che, in riferimento alla tentacolarità delle immagini video e degli archivi artefattuali, parla di una trasformazione “prima e al di fuori di ogni mistificazione intenzionale e cosciente”, che può anche dar luogo “ad alterazioni senza modello certo, a deformazioni che non hanno neanche più un referente abbastanza affidabile perché si possa parlare di menzogna”. Il regno delle illusioni e della negazione del logos fa tutt’uno con il luna-park delle libertà più caleidoscopiche e stravaganti. Quello che Cerulo alla fine chiama “l’inaridimento dell’unicità e dell’originalità individuali” ne è il dazio e lo zecchino d’oro da disseppellire.

di Carmine Castoro

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