Sud, terra d’erranze e ritorni (Gazzetta del Sud)

di ssolvere l'ombra. Ma non, del 22 Ottobre 2015

Da Gazzetta del Sud del 22 ottobre

Dissolvere l’ombra. Ma non è detto che apparirà la luce. Che dell’ombra è il contraltare necessario (perché senza luce non c’è ombra). Sembra essere questo il filo rosso che lega le tante narrazioni contenute nel nuovo libro di Vito Teti, antropologo, docente di etnologia all’Università della Calabria, dal titolo “Terra inquieta”, edito da Rubbettino.
Benché gli argomenti trattati, le tesi esposte, i ricordi, le rievocazioni, le memorie, le analisi siano diverse fra loro, questo nuovo libro dell’autore di “La razza maledetta” (Manifesto libri), “Il senso dei luoghi” (Donzelli), “Maledetto Sud” (Einaudi) e molti altri titoli – uno in uscita il prossimo mese per Einaudi, “Fine pasto”, su un tema assolutamente attuale nell’anno dell’Expo, il cibo – , restituisce al lettore il grande affresco di un’epoca. Che è poi il Mezzogiorno nel Novecento. Letto, però, alla luce della più stretta attualità. E il sottotitolo – “Per una antropologia dell’erranza meridionale” – conferma questa sensazione: che Teti, cioè, abbia voluto offrire una sua interpretazione definitiva, benché problematica, del Sud. Di “questo” specifico sud del mondo, da sempre sull’orlo di un baratro e sempre, pervicacemente animato da un inafferrabile vitalismo. Che lo ha portato e lo porta a sopravvivere, in modo apparentemente inspiegabile, a tutto il negativo che le statistiche ufficiali gli attribuiscono periodicamente. Ma che anche lo abbandona come in un oceano in tempesta. In attesa di calare a picco. Ineluttabilmente, irredimibilmente, come direbbe Carlo Levi.
Il Sud e il viaggio, l’andare e il restare, temi forti che l’antropologo da sempre ha trattato nei suoi libri, e che qui vengono articolati nei suggestivi capitoli della «linea ondulata: sussulti, scivolamenti, abbandoni», che traccia la geoantropologia di una terra “mobile”; la «linea curva: percorsi, pellegrinaggi, cicli eterni», ovvero l’erranza mitica del mondo contadino; «la linea retta: utopie, fughe, nostalgie», quindi la terra mobilissima dell’emigrazione; «la linea spezzata: ritorni, nuovi arrivi, partenze», analisi, o speranza, di un possibile approdo.

Un’eterna attesa
Il libro di Teti risuona di tanta letteratura del Novecento, diversa per stili e contenuti, ma simile per lo sguardo pieno di commozione verso un Sud (e altri «sud») che la Storia ha relegato ad un ruolo di subalternità, in una situazione di eterna attesa, in una prigione le cui chiavi non sono nelle mani di un aguzzino ma, spesso, degli stessi meridionali. Così sentiamo le voci dell’amatissimo Corrado Alvaro, quelle di Ernesto De Martino, Francesco Perri, Nuto Revelli, Sandro Onofri, Lionello De Nobili, Napoleone Colajanni, Francesco Saverio Nitti. E di una moltitudine di autori che hanno raccontato e raccontano il Sud. Ciascuno a suo modo. Come i tasselli di un grande mosaico, un “vestito d’Arlecchino”, nel quale trovare – con fatica – il colore di fondo. Oppure non trovarlo, come pare suggerire Teti stesso, quando oppone alle retoriche identitarie di chi vorrebbe il Sud come un qualcosa di unico, identificabile, immobile, vittima solo delle angherie altrui, un’ “identità plurale”, che passa per i mille sud del Sud, e per una storia, anche recente, eccezionalmente complessa, fortemente stratificata, difficilmente decifrabile.
Ma è esso stesso un libro fortemente letterario, come ha scritto Roberto Saviano: «Il suo racconto del Sud, dell’erranza meridionale, è fatto attraverso racconti antropologici. Anche questo è un libro letterario bellissimo». Le narrazioni del libro – dalla memoria etnografica di riti, feste, tradizioni alla interpretazione antropologica di – fenomeni come il brigantaggio, l’emigrazione, la criminalità organizzata sino ai racconti più personali, intimi – sembrano proprio voler offrire al lettore chiavi di lettura. Senza obbligarlo necessariamente ad una conclusione. Perché il Sud non è mai “concluso”, è un’eterna narrazione in movimento, una marea, una fiumana. Esattamente come fu (ed è) l’emigrazione, campo d’indagine primario del libro. Tema mai così scottante come in questi tempi, in cui si intrecciano, emblematicamente, la nuova emigrazione dei cervelli dal Sud verso il resto del mondo e l’immigrazione in Europa di masse di disperati provenienti del sud del Mediterraneo.
Scrive Teti: «Pare che l’unica alternativa che la storia assegni ai meridionali sia essere briganti o essere migranti. O la montagna o l’America. L’impressione è che una congiura di dati storici, economici, sociali, culturali, passati e recenti, abbia contribuito a fare dei meridionali persone inquiete, destinate alla fuga non appena essa diventa possibile».
Gli emigranti, secondo Teti, divengono la metafora stessa della ribellione all’antico ordine sociale e morale. Per questo vengono bollati come «facinorosi» in patria (dove la loro irrequietezza disturba i ceti dominanti) e come «indesiderabili» nelle terre di approdo.
Da qui il sentimento ambivalente della nostalgia, che da un lato rivela tutto il portato doloroso dell’allontanamento dal paese e dall’altro determina l’idealizzazione del passato.
La nostalgia è il sentimento di chi parte, per cambiare, per tornare. «La nostalgia – scrive Teti – diventa un valore per persone che assistono alla fine di un mondo». Ed ecco che, come per raccogliere un famoso invito di Alvaro, Teti nota come la nostalgia è sentimento fondante della memoria di chi emigra, quasi una strategia psicologica per tenere in vita il luogo di provenienza e per trovare il luogo d’arrivo attraverso forme di orientamento già apprese.
E tuttavia, avverte Teti, la nostalgia non può essere sentimento paralizzante, non può farci rifugiate in un passato mitizzato, rendendoci incapaci di comprendere e vivere il presente.
«Occorre – scrive lo studioso – avere un legame autentico con la tradizione, riconoscerla, ma anche individuare ed abbandonare gli aspetti più negativi e deteriori […].
Non esiste alcun autentico legame con la modernità se si dimentica il passato. Ma il passato non può costituire sempre un fardello».
Di Francesco Bevilacqua

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