Storia delle destre nell’Italia Repubblicana. Recensione

di Luigi Ambrosi, del 7 Aprile 2015

Da Giornale di Storia Contemporanea, XVII (1 n.s.), 1-2, 2014

Il libro curato da Giovanni Orsina non è soltanto una mappa per orientarsi nel territorio ancora ampiamente inesplorato delle destre nella storia dell’Italia repubblicana. Per di più, non è solo e non tanto il tardivo riempimento di una lacuna scientifica nella conoscenza di un’area politica e culturale trascurata in relazione alle vicende più recenti del nostro Paese. Si tratta, in realtà, di un progetto di lettura di ampio periodo della storia italiana, con una precisa e netta proposta interpretativa, che funge da cornice – o meglio da sfondo – ai vari saggi presentati.
La proposta interpretativa di Orsina riguarda un fenomeno che sembrerebbe ancora così «caldo» da consigliare di tenersi alla larga e che il curatore ha sviluppato e approfondito in un altro volume, pubblicato nel 2013 per i tipi di Marsilio: il berlusconismo.
Sembra giusto perciò non trascurare questa caratteristica della proposta storiografica ed editoriale, che si può sintetizzare nella confluenza – pur parziale – delle varie destre della prima Repubblica nell’alveo del berlusconismo e soprattutto dello specifico gradimento della proposta politica di Silvio Berlusconi da parte della «galassia delle destre plurali» descritta nel libro. Una «proposta politica fondata sulla «santificazione del Paese reale» e composta dei tre filoni retorici dello Stato amico, dell’ipopolitica e della nuova élite pubblica uscita dalla «trincea del lavoro» (Orsina, p. 282). Questi tre filoni retorici rappresentano altrettanti terreni di riavvicinamento tra Paese legale e Paese reale, nel senso di un adeguamento del primo al secondo, mediante: un alleggerimento e delimitazione del campo di intervento statale, di «stampo liberista» (secondo la locuzione usata esclusivamente in ambito continentale, osserva Gaetano Quagliariello, p. 31); una politica più attenta alla gestione concreta della comunità che alle divisioni ideologiche e agli scontri di potere, più attenta alle policies e meno alla politics; un’iniezione abbondante di «società civile» nel personale politico e nella classe dirigente.
Gli ingredienti della proposta politica berlusconiana sembrano in realtà non direttamente e soprattutto non meccanicamente riconducibili alle destre – certamente non a tutte – della prima Repubblica. Ciò avviene invece attraverso alcuni passaggi specifici, come ad esempio quello avvenuto negli anni Ottanta con l’influenza – che solo ora inizia a essere studiata – del «reaganismo» e del «thatcherismo» sulle destre italiane ed europee, che secondo Quagliariello rappresenta il quarto di cinque periodi in cui può essere suddivisa la storia di questa multiforme area politica e culturale in Europa (Quagliariello, p. 17). Uno di questi passaggi, peculiare del contesto nazionale, sembra determinante: il fiume carsico dell’«antipolitica» o, meno à la page, della critica alla partitocrazia, che viene trattato da Eugenio Capozzi. Dall’originaria esperienza qualunquista all’elaborazione teorica di stampo socialdemocratico di Giuseppe Maranini, fino alle tendenza di area liberaldemocratica e riformista (a partire dai gruppi gravitanti attorno alla rivista «Il Mondo»), il tema antiparitocratico non lineare con il cleavage ideologico destra-sinistra. In seguito alla crisi del centro-sinistra, soprattutto dalla fine degli anni Sessanta, diventerà un cliché della propaganda dei neofascisti, come dimostra la vicenda della rivolta di Reggio Calabria del 1970, per sfociare nel protagonismo missino dei primi anni Novanta.
Un’altra dimensione di collegamento tra le destre della prima Repubblica e il berlusconismo è l’incidenza di quest’ultimo nel loro posizionamento, nella loro collocazione rispetto al più ampio campo di forze politiche che si candidavano a rappresentare e a governare il Paese. Non si tratta tanto dello «sdoganamento» del Msi, quanto del fatto che la marginalizzazione politica delle destre si era articolata su più e variegati livelli, con profonde conseguenze sul campo della cultura politica e istituzionale (basti pensare alla vicenda del presidenzialismo di stampo gollista, che – come argomentano diversi saggi del libro – sarà considerato proposta «antidemocratica» per lungo tempo).
Si tratta, dunque, anche di uno «sdoganamento culturale», che passa attraverso il rifiuto e il ribaltamento – il primo nella storia unitaria – dell’approccio ortopedico e pedagogico che le classi dirigenti e le élites italiane hanno perpetuato per decenni, animate dalla volontà di raddrizzare e rieducare una società scarsamente moderna e difficilmente modernizzabile. Un proposito che ha animato, a dire il vero, sia i progressisti che i conservatori, ma che ha trovato nel centro-sinistra degli anni Sessanta un tornante decisivo per la storia delle destre trattate nel volume, avendo «contribuito a spingere sottoterra il fiume del moderatismo nazionale, privandolo di cultura, visibilità, rappresentanza» (Orsina, p. 294).
In particolare, le vicende del governo Tambroni del 1960, che rappresentò l’imbocco irreversibile verso la formula del centro-sinistra, costituiscono un punto di svolta per tutte le destre, non solo quelle marginali e marginalizzate.
I monarchici furono coloro che videro sancita in quell’occasione la propria eclissi politica, dopo aver vagheggiato per buona parte degli anni Cinquanta la nascita di una «Grande destra», di cui non era stato possibile creare nemmeno una base unitaria di stampo monarchico, a causa delle «rivalità personali» (Andrea Ungari, p. 181). Per il Msi terminò il progetto micheliniano dell’inserimento e cominciò un periodo di insolubile intreccio tra, in termini sloganistici, «alternativa» e «doppiopetto», che – come mostra il saggio di Giuseppe Parlato – contenevano entrambi i semi un superamento dell’arroccamento nostalgico e identitario, che continuò a segnare il partito per lungo tempo. I liberali ne subirono il contraccolpo in modo meno diretto, invece, ottenendo un immediato exploit nelle elezioni politiche del 1963 e un successivo periodo di «immobilismo politico» dovuto al depotenziamento della proposta di alternativa liberale, prodotto dalla «caratterizzazione moderata assunta del centro-sinistra» (Gerardo Nicolosi p. 149).
Ne trovò linfa vitale – se non proprio la ragion d’essere –, invece, la destra eversiva, rappresentata anche da gruppi nati in precedenza (Ordine nuovo, Avanguardia nazionale) che coltivavano «il progetto di rovesciare i rapporti di forza all’interno della politica italiana, puntando sul mondo militare, per riscattare l’umiliazione subita dopo i fatti del luglio ’60» (Guido Panvini, p. 224). Fu una svolta positiva per la destra democristiana, che riuscì per l’ennesima volta a mantenere saldo il baricentro del partito cattolico, mediante una «rigida opposizione nei confronti di uno scivolamento a sinistra del quadro politico» (Vera Capperucci, p. 78), che non voleva dire evitare l’alleanza con il Psi ma porla su basi programmatiche (corsivo mio) moderate, segnate dai confini politici del centrismo. Ciò non voleva dire certo allearsi con il Msi, verso cui si manteneva comunque un discrimine (di carattere parziale e utilitaristico, considerato l’utilizzo passato e futuro dei voti missini per singoli provvedimenti, elezioni del Capo dello Stato e accordi locali), ma impostare la propria linea politica non in modo meramente tattico.
Proprio «programma» è un termine che ricorre spesso nel libro, in quasi tutti i saggi, ma non viene altrettanto spesso enucleato, sviscerato, esplicitato. Il che è dovuto certo al fatto che la maggior parte di queste destre furono all’opposizione e quindi non dovettero misurarsi con il problema del governo. Tuttavia, prevale la storia del posizionamento e dei rapporti interni ed esterni, su quella delle idee e dei contenuti politici e programmatici. Un piano di difficile e molto problematica trattazione, considerata anche la temperie culturale in cui cleavage destra/sinistra sembra sempre più precario e indefinito, nei fatti superabile da alcuni – ad esempio, le forze neopopuliste – ma non superato dal corso della storia, a mio parere.
Come si definisce una forza di destra? Per le proprie proposte politiche? Per il proprio posizionamento, nazionale e/o internazionale? Per le proprie alleanze? Per i valori che vengono proclamati? Si tratta di domande semplici ma che rivestono un’importanza fondamentale nell’approccio al tema, come riconosce implicitamente Orsina, quando rende conto delle scelta di includere nel volume la Dc e il Pli (due partiti non soltanto di destra), ma soprattutto il fenomeno delle leghe e delle Lega Nord in particolare, trattato da Lucia Bonfreschi.
Non è difficile, come osserva il curatore, accomunare dal punto di vista dei contenuti tutte le destre trattate nel libro in base a delle contrapposizioni, l’anticomunismo e l’»antipolitica». Più complesso è andare oltre la «comune identificazione del «nemico»» (Orsina, p. 10), districando i fili delle identità e delle idee, appunto. I saggi di questo libro e il loro comune sfondo, l’approdo berlusconiano nella seconda Repubblica, sono quindi una solida base di partenza, un ricco serbatoio di spunti di analisi e riflessione che meritano di essere approfonditi.

di Luigi Ambrosi

GIOVANNI ORSINA, a cura di, Storia delle destre nell’Italia repubblicana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014.

clicca qui per acquistare il volume con il 15% di sconto

Altre Rassegne