Sir James, ministro dei quadri italiani (IlSole24Ore.com)

del 29 Agosto 2012

Da IlSole24Ore.com – 29 agosto 2012
Nei dodici anni, dal 1852 al 1863, trascorsi a Torino che si apprestava ad essere – per poi divenire – capitale d’Italia, sir James Hudson, ministro plenipotenziario di Gran Bretagna presso il re di Sardegna e poi d’Italia Vittorio Emanuele II, fu un importante protagonista della nostra storia. Suggerì a Cavour e con lui architettò l’intervento piemontese in Crimea e negli anni cruciali dell’Unificazione si impegnò a fondo, anche disubbidendo più di una volta alle istruzioni del suo governo, nel favorire l’impresa. «Aveva un aspetto attraente e amichevolmente franco, risultato senza dubbio del suo buon carattere e delle sue nobili origini» lo ricorda nel 1861 Caroline Marsh, moglie dell’ambasciatore americano appena arrivata a Torino. «Un inglese impetuoso» lo definisce lo storico Luigi Bulferetti. Del resto, quando assai giovane, era stato spedito a Roma d’urgenza per rintracciare Robert Peel che era stato in sua assenza nominato primo ministro, compì la missione con tale celerità da guadagnarsi, grazie a Disraeli, il nomignolo di «hurry Hudson». Un inglese non sempre compassato, tanto che parlando del marchese Alberto Ricci diplomatico e senatore avrebbe detto: «Lo considero una canaglia, gli sputerò in faccia e lo scaraventerò fuori della porta».
Con disinvoltura poco minore si sarebbe espresso privatamente sui suoi superiori diretti, i ministri degli esteri di sua maestà britannica, qualificando di imbecille Lord George Clarendon e affermando che Lord John Russell non conosceva l’Italia più di quanto la conoscessero i tacchi delle sue scarpe. Sir James invece la conosceva bene la amava appassionatamente. Se il fatto di coinvolgere Cavour e Vittorio Emanuele nell’avventura di Crimea era stato molto apprezzato dal governo inglese, la sua incondizionata adesione alla politica cavouriana non lo fu altrettanto per il timore che un conflitto tra l’Austria e il Piemonte alleato della Francia facesse aumentare il peso europeo di quest’ultima.

Hudson non era troppo amato dai Tories, era guardato con sospetto dalla regina Vittoria che lo conosceva fin da quando era segretario di re Guglielmo IV ma lo considerava più o meno un carbonaro, ed era visto con apprensione da Lord Malmesbury ministro degli esteri nel 1858-1859, italofilo ma preoccupato dal fatto che Hudson fosse «più italiano degli italiani e stesse tutto il tempo con gli ultras della causa».

Il nostro uomo era più favorevolmente considerato dai Whigs. Il suo modo di agire impulsivo era apprezzato da Palmerston che riconosceva in lui un carattere simile al proprio e lo protesse sempre, fu molto amico dello scopritore di Ninive Austen Henry Layard (anche lui un diplomatico marchand-amateur, collezionista, vero fondatore della British Museum Library), ebbe buoni rapporti con John Charles Robinson del South Kensington Museum (impareggiabile talent scout) e con il personaggio più eminente del mondo dell’arte londinese, Charles Lock Eastlake, direttore della National Gallery. Tra gli amici italiani aveva molte teste calde (in una cena, tutti i convitati, tranne Hudson e un suo collaboratore, erano dei condannati a morte, esuli a Torino) ma era legatissimo a Cavour, amico di Massimo e soprattutto di Emanuele d’Azeglio (ambasciatore a Londra e raffinato collezionista), di Antonio Panizzi (mitico bibliotecario del British Museum) e persino di Giuseppe Verdi. Ma era anche fedele discepolo di Giovanni Morelli, che aveva conosciuto nell’esilio torinese.

Torino era allora frequentata e apprezzata dagli anglosassoni. Nel 1850 ci era passato Gladstone che visitando la Galleria Sabauda si era fermato a lungo a studiarne le opere. Nel 1858 arriva John Ruskin che interrotti i suoi giri nelle Alpi e deluso dalla rustica ospitalità di Bellinzona e ancor più da Torre Pellice, dov’era andato in pio pellegrinaggio, aveva trovato a Torino un delizioso rifugio nell’Hòtel de l’Europe e passava gran parte delle giornate – soprattutto di pioggia – in Palazzo Madama ad ammirare estatico, studiare e disegnare Salomone e la regina di Saba di Veronese e i van Dyck. Con Gladstone, allora Cancelliere dello Scacchiere, Hudson corrisponderà non solo sulle più scottanti urgenze politiche ma anche sulle porcellane di Vinovo, infatti, al pari dell’amico Emanuele d’Azeglio, nutriva un vivo interesse per le ceramiche, tanto da far ripubblicare l’elogio del creatore della fabbrica di porcellana di Vinovo, Vittorio Amedeo Gioanetti , che uscito nel 1818 era stato totalmente ignorato.

Sir James fu un diplomatico e un politico, ma anche un collezionista, un abile mediatore, un mercante-amatore come ricordò John Fleming in un bellissimo saggio, Art Dealing and the Risorgimento (1973). Un ministro plenipotenziario «mordu par la peinture», che ospitava nel suo studio in vista di una possibile vendita splendidi dipinti come il Ritratto di giovane, un capolavoro del Moretta, ora alla National Gallery di proprietà del conte Teodoro Lechi (un bresciano esule a Torino), che mostrava un gusto sicuro quando comprava dall’erede di una grande collezione torinese il Falcone, una rara tavoletta di Jacopo de’ Barbari anch’essa alla National Gallery. E che segnalava ad Eastlake opere interessanti da acquistare in Italia ed era, purtroppo per noi, molto efficiente quando si trattava di facilitare l’arrivo in Inghilterra di opere italiane, come la Madonna della Rondine di Carlo Crivelli, rimossa a forza dalla chiesa di Matelica per cui era stata dipinta.

L’incontro torinese con Morelli fu per Hudson una rivelazione. Grazie a lui scoprì la grandezza dei pittori bresciani e bergamaschi, a lui fu sempre devotissimo riconoscendolo come un maestro. Se qualche volta sbagliava un giudizio bastava una parola di Morelli a farlo ravvede re. Come quando, dopo aver avvertito Layard che gli spediva un elenco di «stunning good pictures» in vendita a Milano, ritornava precipitosamente sui propri passi avvertendo: «Morelli mi dice che la lista dei dipinti che vi ho mandato dovrebbe chiamarsi piuttosto una lista di croste».

Morto Cavour, Hudson non accettò un incarico a Costantinopoli che lo avrebbe allontanato dall’Italia, ma si ritirò a Firenze, dove l’inverno era più dolce che nell’“iperboreo” Torino, e qui continuò la sua attività di marchand-amateur per poi morire a Strasburgo, dove era andato per curarsi di un cancro pochi giorni dopo il suo matrimonio con una dama milanese cui era stato per molti anni legato. Felice è stata l’idea di Andrea Comba, presidente della Fondazione Crt, di ricordare James Hudson nel centocinquantenario dell’Unità e a duecento anni dalla nascita. Ne sono nati un convegno, una lapide posta sulla facciata di quella che era stata la sede della legazione britannica, e due libri di notevole spessore scientifico: Diplomazia, musei e collezionismo tra il Piemonte e l’Europa negli anni del Risorgimento, a cura di Giovanni Romano, edito dalla Crt, e Sir James Hudson nel Risorgimento italiano, a cura di Edoardo Greppi e Enrica Pagella (Rubbettino), che hanno fatto luce sui molti volti di un gran personaggio del Risorgimento.

Di Enrico Castelnuovo

Altre Rassegne