Shrapnel e Schwarzlose La grande guerra in una provincia calabrese (DEP)

di Maria Grazia Suriano, del 15 Luglio 2016

Giovanni Sole

Shrapnel e Schwarzlose

La grande guerra in una provincia calabrese

Da DEP di luglio

Shrapnel e Schwarzlose. La Grande guerra in una provincia calabrese, pubblicato alla fine del 2015, porta nel dibattito storiografico sulla Prima guerra mondiale l’impatto che gli anni del conflitto ebbero sulla popolazione della provincia di Cosenza.
L’autore chiarisce il doppio piano della sua analisi sin dal titolo, muovendosi dal campo di battaglia – dove tuonavano le esplosioni degli shrapnel, granate piene di sfere metalliche (e medagliette raffiguranti Dante Alighieri, p.60) che esplodevano prima di toccare terra, trafiggendo i corpi dei soldati, e dove imperversava la schwarzlose, la mitragliatrice pesante in dotazione all’esercito asburgico – alla casa dove una volta evaporati gli entusiasmi per “la santa guerra” (pp. 157-167) le famiglie vivevano nella disperazione per la mancanza di notizie dal fronte e, con il passare dei mesi, per le sempre più precarie condizioni di vita quotidiana. Lo spostamento dello sguardo da un “centro”, identificabile con la mobilitazione nazionale e, dunque, con il fronte e la trincea, ad una “periferia”, rappresentata dal luogo di origine dei militari e dalle loro famiglie con le difficoltà generate dal conflitto medesimo, è il primo dei dati da sottolineare riguardo al libro di Giovanni Sole. Il muovere l’attenzione da un punto di osservazione all’altro permette all’autore di ridefinire i contorni della mobilitazione e del quotidiano di guerra di un’area lontana dal fronte, la provincia di Cosenza, la cui esperienza, al pari di quella di altre realtà meridionali, è rimasta a lungo piuttosto marginale sia nella vulgata storiografica nazionale sulla prima guerra mondiale sia nelle ricostruzioni di storia locale, in questo caso calabrese, che hanno privilegiato gli aspetti militari del sacrificio: è questo, ad esempio, il caso di La prima guerra mondiale, guerra di posizione. Il contributo della Calabria nel sacrificio dei fanti della “Brescia” e della “Catanzaro” (Francesco Deodato-Giuseppe Cinquegrana, 2015) e di Le tre medaglie d’oro reggine della Prima Guerra Mondiale (Francesco Arillotta, “Calabria sconosciuta”, 145, 2015).
Organizzato in 16 capitoli, il volume sembra non volere tralasciare nessuno dei temi affrontati dalla storiografia sulla prima guerra mondiale negli anni recenti (si veda al riguardo la rassegna storiografica curata da Bruna Bianchi, Living in War. Women in Italian Historiography (1980-2016), in “Dep. Deportate esuli profughe”, 31, 2016), quasi a voler ricucire l’esperienza della provincia di Cosenza, pur nelle sue specificità locali, ad un vissuto nazionale più vasto e comunque condiviso. I capitoli – Le radiose giornate di maggio, La festa artificiale, Vita di trincea, Assalti alla baionetta, Scemi di guerra, Le decimazioni, Kriegsgefangenenlager, Lettere dal fronte, Prigionieri austriaci, Funerali senza salme, La santa guerra, Profughi e internati, Il nemico interno, Donne in rivolta, La battaglia del Piave, La vittoria mutilata – ripercorrono tutte le fasi della guerra, dalla mobilitazione patriottica festosa del maggio 1915, quando anche i socialisti cosentini abbandonarono le istanze neutraliste per unirsi alle voci dei repubblicani e della chiesa cattolica, già allineatisi alle decisioni monarchiche e di governo, sino al malcontento per gli esiti della guerra, che anziché generare “una nazione potente e ricca (…) nei fatti aveva portato al massacro della gioventù” (p.260), aprendo le porte al fascismo. Nel mezzo vi è la ricostruzione degli anni del conflitto, effettuata utilizzando la documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Cosenza, le lettere dal fronte, gli articoli apparsi sulla stampa locale e riconducibili a testate di varie connotazioni politiche, nonché i bollettini del Comando Supremo del Regio esercito, che descrivevano le avanzate vittoriose in evidente contrasto con i telegrammi dal fronte, che, invece, informavano tardivamente di feriti e dispersi e dei tanti caduti sepolti in fosse comuni o in cimiteri sperduti. A far da contro canto alla narrazione della trincea, i mutamenti socio-economici che a livello locale investirono la popolazione civile e a cui sono riconducibili altri aspetti significativi del volume di Sole, ben evidenziati nei capitoli dedicati alle rivolte femminili (pp.219-232), ai profughi e agli internati (pp.167-176) e all’internamento manicomiale (pp.87-91). Le donne, infatti, sopraffatte dagli oneri del lavoro dei campi e dal sempre più complicato lavoro di cura in condizioni di ristrettezze, si resero protagoniste, come del resto in altre regioni d’Italia, di iniziative clamorose. A nulla valsero i premi e i riconoscimenti conferiti dalle autorità alle contadine che, pur con estreme difficoltà, continuavano a portare avanti i lavori agricoli, garantendo una produzione adeguata sia alle esigenze familiari sia a quelle militari. Quando le requisizioni di grano e di altri beni alimentari da inviare al fronte divennero insostenibili e, soprattutto, quando il mercato nero cominciò a prosperare con la connivenza degli amministratori locali, arricchendo notabili ed élites criminali, le donne della provincia di Cosenza scesero in piazza in varie località, dando vita a partire dal 1917 a manifestazioni violente, altrettanto violentemente represse come nel caso di Roggiano (p. 230). I bersagli delle manifestazioni erano principalmente gli amministratori corrotti e gli speculatori, a loro venivano imputati il caro viveri e il fatto che a pagare le conseguenze della guerra fossero esclusivamente i più poveri. Nell’esperienza cosentina, così come ce la restituisce Sole, si palesa quello che Giovanna Procacci, indagando le proteste femminili in un quadro nazionale, ha definito il “movente morale”, dunque scardinato dalle appartenenze politiche, all’origine delle manifestazioni di protesta (Giovanna Procacci, Le donne e le manifestazioni popolari durante la neutralità e negli anni della guerra (1914-1918), in “Dep. Deportate Esuli Profughe”, 31, 2016).
Per quel che riguarda la presenza di profughi e internati, l’autore evidenzia come a partire dal 1917, in particolare dopo Caporetto, il loro numero aumentò in maniera significativa. Intere famiglie, provenienti dal Trentino, dal Veneto e dal Friuli, in fuga dai territori occupati dall’esercito austriaco, arrivarono nella provincia di Cosenza. Agli inizi furono accolte in un clima solidale, ma ben presto furono lasciate a se stesse, in condizioni miserevoli. I Comitati di assistenza non riuscirono a garantire la distribuzione degli aiuti provenienti dal governo nazionale, neppure quella delle calzature, perché in assenza di controlli effettivi da parte degli amministratori e di fronte alla speculazione dilagante gli aiuti inevitabilmente imboccavano la strada del mercato nero. Quella dei profughi era una presenza “esterna” consistente che andava ad incrementare quella degli internati, arrivati in regione già agli inizi del conflitto. Gli internati erano rappresentati da una compagine variegata costituita da sudditi austro-ungarici e tedeschi, residenti in Italia al momento dello scoppio del conflitto, e da quanti avevano manifestato sentimenti antinazionali opponendosi alla guerra ovvero socialisti, anarchici, cattolici e pacifisti. Sole restituisce la difficile condizione di vita di queste persone attraverso le lettere che inviavanoalle autorità, denunciando la condizione di miseria in cui versavano e chiedendoaiuti economici, e la mette a confronto con la durezza della vita della comunitàlocale. Nonostante le difficoltà oggettive, l’autore sottolinea come, molti mesidopo la fine della guerra, fossero ancora numerosi gli internati rimasti in provincia.Una menzione particolare va, inoltre, all’attenzione riservata all’internamentomanicomiale. Tra il 1916 e il 1918 furono 498 i militari calabresi, siciliani, campanie lucani ricoverati nel manicomio di Girifalco in provincia di Catanzaro. In osservanzaalle indicazioni provenienti dai comandi militari, gli psichiatri calabresi come altri loro colleghi nel resto d’Italia furono restii nel collegare le patologie psichiatriche al conflitto, rintracciando piuttosto nella storia famigliare dei degenti i segni di tare ereditarie emerse in seguito ad episodi traumatici, esperiti sul campo di battaglia – bombardamenti, scoppi di granate, ferite di armi da fuoco e gas asfissianti (p. 90) – o in seguito allo sviluppo di tipiche malattie da trincea come la sifilide, la malaria, l’alcolismo, la polmonite, il tifo. La maggioranza dei ricoverati morì, solo alcuni furono trasferiti in altre strutture, mentre diversi altri, soprattutto i mutilati, furono rinviati alle famiglie dopo aver appreso durante la degenza in manicomio i mestieri di sarto, calzolaio, fabbro, cioè quei lavori manuali che avrebbero permesso loro di contribuire in qualche modo al sostentamento della famiglia pur non potendo più lavorare nei campi. La breve ricostruzione dell’esperienza manicomiale fornita da Sole ricorda come con lo scoppio della guerra aumentò il numero degli “ammalati civili”: famigliari dei soldati e, in particolare, donne, le cui patologie psichiche erano considerate conseguenze dirette del conflitto. Alle donne furono diagnosticate forme di malinconia ansiosa, ipocondria, psicosi neurasteniche, pazzia, tutte patologie legate alla perdita, quella effettiva dei figli morti sui campi di battaglia, ma anche quella legata al senso di abbandono derivante dalla partenza dei mariti. Tra le donne degenti nel manicomio di Girifalco viene segnalata anche la presenza di alcune profughe che, costrette ad abbandonare le proprie case dopo l’invasione austriaca, soffrivano di malinconia grave.
Il volume presenta, infine, un ricco apparato iconografico. Le 108 immagini proposte contribuiscono anche visivamente a riverberare la memoria del fronte, eppure, è bene ribadirlo, in Shrapnel e Schwarzlose la narrazione patriottico-bellicista della guerra è stata smussata e ridefinita nei suoi contenuti attraverso un’analisi antropologica che ha riportato al centro della ricostruzione storica le individualità di militari e civili, di donne e uomini, autoctoni e “stranieri”, mettendo in primo piano le soggettività subalterne – i poveri, gli analfabeti, i traumatizzati nel corpo e nella psiche – e la loro capacità di resilienza.

di Maria Grazia Suriano

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