Rispettare le regole è la condizione per rilanciare il Sud (Il Sole 24 Ore)

di Alfonso Ruffo, del 19 Maggio 2015

Da Il Sole 24 Ore del 17 maggio

Chi ha ucciso la Questione Meridionale? Come ha fatto l’assassino a nasconderne il corpo per tanto tempo? Dove possiamo rintracciare complici e fiancheggiatori? A queste domande risponde Mariano D’Antonio, già docente di economia nelle Università di Napoli e Roma con varie esperienze amministrative (è stato anche consigliere della vecchia Cassa del Mezzogiorno), con una ricerca fresca di stampa per Rubbettino.
D’accordo con tutti gli autori del saggio -in ordine di comparizione: Matteo Marini, Sonia Scognamiglio, Annalisia Marini, Antonio Russo, Lucia Cavola, Achille Flora, Giovanni Laino, Francesco Pastore, Sara Gaudino, Giuseppe Leonello, Roberto Celentano – il principale sospettato, il maggiordomo dei gialli migliori, è individuato negli stessi meridionali. Meglio, nella loro scarsa attitudine a rispettare le regole. Meglio ancora, nella slealtà dominante dei loro comportamenti.
Dunque, se esiste un giudizio negativo, a volte venato di razzismo, di pezzi del Nord – operoso o meno – nei confronti dei cugini del Sud questo è giustificato dal loro modo d’intendere la vita e le relazioni. Un modo condizionato dalla scarsa fiducia reciproca che genera sospetto e invidia sociale con il risultato di esaltare quel familismo amorale già messo in luce dal politologo americano Edward Banfield più di cinquant’anni fa e del quale non ci si riesce a liberare.
Da qui la nascita di una relazione perversa, di un circolo vizioso, che condanna il Sud alla sua arretratezza. «Lo scarso senso civico – scrive D’Antonio – è effetto e al tempo stesso concausa dell’insufficiente sviluppo: la povertà spinge a violare le regole, l’illegalità a sua volta ostacola la riduzione della povertà». Non c’è spazio per i «soliti piagnistei», nell’analisi proposta dall’economista, ma l’invito a un mea culpa generale e incondizionato.
Non si tratta di condannare le tesi di chi misura la distanza in termini d’investimenti e ricchezza tra le due Italie, un lavoro svolto dalla Svimez con rigore e puntualità, ma di fornire un contributo alla lettura di quel fenomeno e suggerire una possibile soluzione. Che deve necessariamente passare per una nuova legittimazione dei ceti dominanti ai quali si chiede di saper meritare l’attenzione e la considerazione che pretendono modificando cultura e atteggiamento.
Intervistato dal vice direttore del Mattino, Federico Monga, sulla qualità del personale messo in campo per le prossime elezioni regionali, il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, non fa altro che ribadire: «Il Sud – a domanda risponde- ha bisogno di una nuova classe dirigente».
«Questo è un tema – specifica l’alto magistrato – che deve essere centrale e senza divisioni politiche». Insomma, i meridionali più avveduti si stanno accorgendo della propria tara.
Quali sono gli indizi che richiamano un giudizio così severo? D’Antonio ne individua diversi. E li sottopone all’opinione pubblica perché ne prenda atto. In particolare, l’autore si concentra su quattro punti: l’evasione fiscale e contributiva, l’assenteismo per malattia, l’inflazione dei diplomi e delle lauree, il mancato pagamento delle tariffe del trasporto pubblico locale. In tutti questi casi il Mezzogiorno marca abitudini che viene facile definire di «opportunismo sociale».
E non basta; perché la convinzione allargata che solo forzando il sistema sia possibile ottenere la soddisfazione dei propri diritti o comunque delle proprie richieste, fondate o meno che siano, conduce a costruire un rapporto con la pubblica amministrazione malato e pertanto inefficiente. Con il risultato di mettere a repentaglio anche le molte iniziative buone e meritorie che le forze sane del territorio continuano a proporre nonostante l’ostilità dell’ambiente.
Solo qualche dato per rendere l’idea. Nel 2014, secondo i numeri forniti dal procuratore generale della Corte dei conti, i reati denunciati nelle regioni meridionali contro la cosa pubblica superano di molto la percentuale degli abitanti pari al 35,5%: la corruzione è misurata al 42% del totale nazionale, la concussione sale al 53%, l’abuso d’ufficio arriva al 62%. Come si può notare, lo scollamento tra società e istituzioni è più che preoccupante.
E allora, se il Sud si è suicidato – ed è perciò scomparso dall’orizzonte facilitando il compito ai suoi nemici (che pure ci sono e non vanno ignorati) – chi potrà mai avere l’autorità o il carisma d’intimare il fatidico «Alzati e cammina»?

di Alfonso Ruffo

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