Perchè il Sud è rimasto indietro? Il Mezzogiorno fra storia e pubblicistica

del 18 Febbraio 2014

Rivista di Storia Economica, n. 1, febbraio 2014 (draft)

Per quanto l’autore definisca questo suo ultimo lavoro come opera di «storia economica» (p. 8),1 pensiamo che in una biblioteca esso potrebbe trovare la sua collocazione più adeguata piuttosto negli scaffali di pubblicistica che in quelli di scienze sociali. Il tono e l’approccio del volume sono non quelli della ricostruzione storica, quanto piuttosto quelli del dibattito e della polemica (come, del resto, anche il titolo suggerisce). Niente di nuovo si scopre in questo volume rispetto a quanto chi si occupa della storia del Mezzogiorno già conosce. Di originale lo storico del Mezzogiorno vi troverà soltanto un punto di vista che l’autore definisce nuovo nell’Introduzione (ma che nuovo non è affatto, come si mostrerà!), insieme a indicazioni sulla «strategia giusta» per «modificare radicalmente la società meridionale» (p. 14). Intenzioni lodevoli, non c’è che dire!
In realtà una discussione del libro di Emanuele Felice sarebbe più adatta alle colonne di giornali e di settimanali che a una rivista di storia. Abbiamo, tuttavia, pensato che fosse il caso di commentarlo con una certa ampiezza sulla Rivista di Storia Economica per due ragioni. La prima è che l’autore promette, nell’Introduzione, «di costruire e forse di restituire, all’Italia tutta, quel racconto veritiero della questione meridionale e sui divari regionali che attualmente manca» (p. 8). Un obiettivo ambizioso davvero! Chi fa ricerca non può rimanere insensibile alla promessa di un «racconto veritiero» su un tema di tanto rilievo. Finalmente – vien fatto di dire –, dopo un secolo e mezzo di discussioni sulla questione meridionale, troveremo nero su bianco quanto è stato cercato invano da generazioni di studiosi! La seconda ragione è di carattere personale. Essendo stati chiamati in causa criticamente e a più riprese in questo volume, ci è sembrato scorretto non replicare. La ricerca si alimenta di critiche e discussioni. Non vogliamo sottrarci alle regole del gioco.
Divideremo questo nostro intervento in tre sezioni. La prima verrà dedicata ai dati, e cioè alle differenze fra la nostra ricostruzione statistica delle vicende del Mezzogiorno e quella di Felice. Nella seconda sezione affronteremo l’interpretazione che Felice fornisce del rapporto Nord-Sud nella nostra storia nazionale. Nella terza sezione riassumeremo in breve il nostro punto di vista a proposito dei divari regionali in Italia nell’ultimo secolo. Si mostrerà che, mentre le differenze nelle ricostruzioni statistiche sono, tutto sommato e tenendo conto dei marginid’incertezza inevitabili, modeste, rilevanti sono quelle interpretative.

1. I dati

1.1. Le critiche. Felice riassume in questi termini la ricostruzione statistica del prodotto pro capite regionale che avevamo fornito nel nostro volume su Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011: «I due autori derivano la loro serie a partire dalle… stime per gli anni “pilone” di Fenoaltea per l’industria (1871, 1881, 1901, 1911), di Federico per l’agricoltura (1891, 1911, 1938, 1951), di chi scrive per i servizi (1891, 1911, 1938, 1951) e per una parte dell’industria (1938, 1951); dagli anni “pilone” i totali regionali vengono retropolati fino al 1861 utilizzando il ciclo nazionale dei tre macrosettori: ovvero, attribuendo ad ogni regione le stesse variazioni che si registrano a livello nazionale, per l’Italia intera, rispettivamente nell’industria, nei servizi e nell’agricoltura; a partire dalle quote percentuali che ogni regione presenta nei tre settori negli anni “pilone”» (p. 33). In questo modo, secondo Felice, noi avremmo elaborato «la prima serie annuale di lungo periodo che arriva indietro fino al 1861» (p. 32).
È bene dire subito, a scanso di equivoci, che le nostre serie regionali iniziano col 1891 e non col 1861. Felice lo ricorda nella nota 48 del primo capitolo (p.80). Al lettore potrebbe, però, sfuggire questa precisazione. È vero, invece, che abbiamo assunto come punti di partenza per le nostre stime annuali le ricostruzioni fornite dagli studiosi citati, comprese quelle di Felice; che, con i suoi articoli del 2005 su questa stessa rivista, aveva apportato contributi utili alla ricostruzione del Pil regionale italiano;2 assai più utili, a nostro giudizio, dei punti di vista che propone nel libro che commentiamo.

1.2. Le linee di fondo del divario Nord-Sud. Il lettore del volume di Felice potrebbe essere indotto a ritenere, da quanto legge in questo suo libro, che fra la nostra ricostruzione del divario Nord-Sud e quella di Felice esistano profonde differenze. In realtà non è così, come si può vedere dalla Figura 1, dove è rappresentato il Pil pro capite del Mezzogiorno diviso per il Pil pro capite dell’Italia (nella Fig. 1.B il Pil pro capite è espresso a parità di potere d’acquisto e cioè tenendo conto delle differenze dei prezzi fra Nord e Sud).3 La correlazione fra le due curve, di Felice e nostra, della Fig. 1.A è elevatissima (r = 0,96, R2 = 0,93). Il risultato delle due elaborazioni potrebbe essere riassunto, per sommi capi, e tralasciando, per il momento, le divergenze, in questi termini:
– sino alla fine dell’Ottocento il divario Nord-Sud fu relativamente modesto (su quanto modesto fosse, ritorneremo più avanti);
– il divario si accrebbe notevolmente durante il ventennio fascista e raggiunse un massimo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale;
– il Sud si avvicinò al Nord fra il 1951 e il 1973 (registrò, dunque, tassi di crescita superiori a quelli del Nord all’epoca della grande espansione dell’economia italiana negli anni Cinquanta e durante il miracolo economico);
– dal 1973-75 in poi il Sud si è allontanato di nuovo dal Nord e il divario è tornato ad accrescersi. Oggi la distanza fra le due parti del paese è considerevole ed è più o meno stazionaria da diversi anni.
Tutto ciò dieci anni fa non si conosceva o non si conosceva bene.
grafico

Quanto alle differenze nell’elaborazione, è opportuno indicare subito i criteri che abbiamo seguito, distinguendoli da quelli utilizzati da Felice.

1.3. Il nostro procedimento di stima.
Mentre le nostre serie sono per anno esempre nei confini attuali delle regioni (o gruppi di regioni come il Piemonte-Val d’Aosta e l’Abruzzo-Molise, considerate da noi come parti di un’unica regione), quelle di Felice sono ai confini dell’epoca, per decennio (gli anni 1881 e 1921 mancano), e iniziano col 1871.
A proposito del procedimento che abbiamo seguito nella ricostruzione, per quanto da noi già esposto nei nostri lavori, è bene spendere qualche parola in più.4 Ci soffermeremo sugli anni 1891-1951, che costituiscono il periodo più controverso.
Quando trattiamo serie temporali è sempre opportuno distinguere il trend (gt) e il ciclo (ct), da cui il dato annuale yt è composto:

formulax

Il nostro trend per regione è stato ricostruito grazie a quelli che Felice, nel brano precedentemente citato, chiama i “piloni” e cioè i punti fermi costituiti dalle elaborazioni per i tre settori dell’economia fornite da G. Federico, S. Fenoaltea e dallo stesso E. Felice. Per la serie nazionale è il caso di ricordare, come del resto abbiamo fatto nel nostro volume su Il divario Nord-Sud (pp. 184-90), che essa era stata da noi ricostruita tenendo conto di tutti i contributi nuovi che sono stati pubblicati negli ultimi venti anni (e che hanno modificato in particolare il periodo (1861-1913). La nostra serie presenta una correlazione di 0,999 con quella pubblicata nel 2013 da A. Baffigi5 (e già nota dal 2011 perché riportata nel volume a cura di G. Vecchi, In ricchezza e in povertà).6
Una volta stimato il Pil pro capite regionale per gli anni 1891, 1911, 1938, 1951,7 i dati annuali per i periodi intermedi sono ricostruiti interpolando i divari regionali tra i suddetti anni “pilone”. In particolare, abbiamo dapprima ottenuto il differenziale (Dy) del prodotto pro capite (y) per regione (i) per ciascun settore (j) rispetto al prodotto pro capite nazionale nello stesso settore (yN, j) negli anni base:

FORMULA1
I divari regionali nel prodotto pro capite (interpolati linearmente fra i due anni base) sono stati poi moltiplicati per la serie nazionale del prodotto pro capite per ogni settore ottenendo il prodotto dei settori:

formula2
Abbiamo, infine, ottenuto il Pil pro capite regionale sommando i risultati per i tre settori:
formula3
Felice osserva che il metodo d’interpolazione da noi utilizzato ignorerebbe i cicli regionali. In effetti, il nostro metodo consiste nell’interpolazione dei divari regionali tramite il Pil pro capite nazionale. È evidente che, per gli anni ottenuti attraverso interpolazione, la componente ciclica regionale – specifica o idiosincratica – si perde: l’andamento regionale replica quello nazionale.8 Il punto è: per le finalità prefissate, e cioè al fine di ottenere l’andamento del prodotto regionale, la componente ciclica regionale-idiosincratica è davvero così importante? E i dati da noi ottenuti sono attendibili?
Per verificare se il metodo consente di ottenere risultati attendibili e in particolare se la specifica componente ciclica regionale sia rilevante, già in vista della prima elaborazione delle nostre serie, pubblicate nel 20079 (e riviste, ma non radicalmente trasformate nel nostro volume), avevamo tentato un esperimento. Prendemmo, cioè, le serie elaborate dall’Istat e, per il periodo 1980-2004, seguimmo una procedura simile a quella da noi usata dal 1891 agli anni Cinquanta: dati del Pil pro capite per ogni regione nei soli anni 1980 e 2004; interpolazione dei divari tra gli anni 1980 e 2004; calcolo del Pil regionale sulla base della serie nazionale per tutti gli anni intermedi. Presentiamo nella Figura 2, le conclusioni a cui arrivammo. Scegliamo a caso i due anni 1993 e 1996.

grafico2 

Come si vede, le stime si collocano quasi esattamente su una linea retta. La correlazione fra le nostre ricostruzioni e i dati Istat è di 0,99 per ognuno dei due anni. Si nota come la componente aleatoria dell’andamento regionale, dipendente da vicende storiche specifiche ad ogni regione, sia modesta (almeno nel periodo considerato). Per le diverse regioni la correlazione fra le serie annuali da noi ricostruite per il periodo 1980-2004 e quelle elaborate dall’Istat, infatti, non è mai inferiore a 0,98 sui dati cross-section. Le regioni seguono, dunque, molto da vicino le fluttuazioni che nell’attività economica si verificano su scala nazionale. I nostri dubbi riguardano, piuttosto che il metodo da noi adottato, l’attendibilità dei cosiddetti “piloni”, cioè dei dati sul prodotto negli anni base. È su questi che il lavoro futuro di storici e statistici dovrebbe concentrarsi. Felice adotta il metodo usato da Geary e Stark, che prevede l’uso di salari nominali per stimare la produttività relativa del lavoro nelle varie regioni. Quanto attendibili siano i dati che egli ha potuto utilizzare, ad esempio per il 1891, e cioè i salari nominali per settori di attività, è difficile dire. Noi riteniamo, tuttavia, che il profilo regionale e i livelli relativi suggeriti dai “piloni” siano plausibili; alla luce di quanto sappiamo dell’economia delle diverse regioni. Plausibilità, però, non significa certezza!

1.4. Il divario nel 1871. Per quanto riguarda il divario Nord-Sud, calcolato dividendo il Pil pro capite del Sud per quello del Nord, che nel 1891 era, secondo le nostre stime, inferiore di poco al 10 per cento, abbiamo tentato di fornire in maniera deduttiva un campo di variazione plausibile nei trenta anni precedenti, arrivando alla conclusione che, all’epoca dell’Unità, il divario potesse essere di un 10 per cento al massimo (Il divario Nord-Sud, pp. 212-13).
Felice è andato oltre, tuttavia, spingendosi, con la sua ricostruzione, al 1871, e raggiungendo risultati un po’ più pessimistici dei nostri. Lo aveva già fatto nel volume curato da Vecchi, In ricchezza e in povertà. In quel volume, in cui le indicazioni sui metodi e le fonti sono veramente sommarie, a proposito delle sue stime per gli anni dal 1871 al 1951, Felice scriveva di averle ottenute «dividendo le nuove stime del Pil nazionale per l’occupazione regionale, e poi correggendo i risultati con i salari nominali per regione».10 Ci chiedevamo quali dati sui salari avesse usato per il 1871. Nel volume che commentiamo, Felice fornisce una risposta rilevando che, «in assenza di informazioni sui salari per il 1871, in quell’anno la produttività regionale è stata stimata a partire da quella del 1891, con Ciccarelli e Fenoaltea come termine di confronto per calcolare le variazioni intercorse per il 1871. Ancora una volta più affidabile – aggiunge – è la parte sull’agricoltura, settore per il quale sono stati utilizzati dati diretti sulla produzione, del tempo, dopo averli resi omogenei alle stime di Federico dal 1891 in avanti (cercando così di correggere le distorsioni sulle fonti originali)» (p. 35). Affermazioni, queste, che ci aiuterebbero veramente poco, se volessimo replicare i calcoli di Felice per saggiarne l’attendibilità. In particolare ci chiediamo cosa voglia dire che la produttività è stata stimata per il 1871 a partire da quella del 1891 (uguale a quella del 1891?); che per l’agricoltura sono stati utilizzati dati diretti (quali?); e che sono state corrette le distorsioni (di che tipo?) sulle fonti originali.
La conclusione di Felice a proposito del 1871 è che, «fatta 100 l’Italia, il Mezzogiorno presentava un Pil per abitante di 90, il Centro-Nord di 106. Questo vuol dire che fra i meridionali e gli altri Italiani c’era una differenza di reddito di circa il 19 per cento» (p. 36). In sostanza – ci sembra – la differenza a dieci anni all’Unità sarebbe stata del 15 per cento (90/106 = 0,85), oppure del 18 per cento (106/90 = 1,18), a seconda che si calcoli di quanto il Sud si discosta dal Nord (e quindi Sud/Nord) o di quanto il Nord supera il Sud (e quindi Nord/Sud). Nella stima del Pil a parità di potere d’acquisto, fornita nell’Appendice online, Tab. A.6, l’autore presenta un valore di 94 (con l’Italia = 100) per lo stesso anno 1871. In questo modo, il divario Nord-Sud nel 1871 non è più del 15-18 per cento, ma diventa minore del 10 per cento. È sorprendente che Felice non discuta tale importante risultato nel testo ma, in contraddizione con i dati da lui stesso forniti, affermi (p. 41) – e non si capisce su quali basi – che il divario di reddito al momento dell’Unità sarebbe stato del 20-25 per cento!
A quanto scritto nel nostro libro potremmo ora aggiungere che i dati disponibili sui salari nel Regno di Napoli (sia nell’agricoltura che nelle costruzioni), nei decenni precedenti l’Unità, non sono diversi da quelli in Lombardia, Piemonte, Toscana e Liguria, sia in termini nominali (effettuando la conversione delle monete in base al peso in metallo prezioso a cui corrispondevano) che in termini reali (a parità di potere d’acquisto e cioè deflazionando i dati con il valore di panieri equivalenti, ai prezzi delle località a cui i salari si riferiscono).11 Quanto emerge dai salari preunitari è, secondo noi, significativo, anche se non conclusivo.

1.5. Confini dell’epoca e confini attuali.
Una differenza importante esiste fra le nostre stime e quelle di Felice; quella di aver cercato noi di calcolare il Pil procapite per le regioni nei confini attuali12 e non nei confini dell’epoca, come lui ha fatto.
Lasciare i dati ai confini dell’epoca è più comodo. Ma a quale prezzo per il lettore? Immaginiamo che Angus Maddison avesse lasciato le sue serie del Pil e della popolazione d’Europa e del mondo nei confini dell’epoca. Il suo lavoro avrebbe potuto procedere più speditamente; non c’è dubbio. Le sue serie sarebbero stato quasi del tutto inservibili per molti paesi.
Dato che nelle tabelle e nei grafici che Felice propone nel suo lavoro, non è mai specificato quali siano almeno i maggiori cambiamenti territoriali, il lettore potrebbe essere indotto a conclusioni errate; come quelle di rilevare cambiamenti nel Pil pro capite regionale quando invece si tratta soltanto di effetti delle variazioni nell’estensione (e quindi nella popolazione) delle regioni considerate. Solo in calce alla Tab. A.1 dell’Appendice online l’autore scrive, infatti, che i confini sono quelli «del tempo». Nelle altre tabelle troviamo solo un rimando alla Tab. A.1. Forse Felice avrà specificato in altri suoi lavori quali siano le principali variazioni nei confini regionali. Il lettore non vorrebbe, tuttavia, passare in rassegna la bibliografia di Felice per chiarire i propri dubbi a proposito di una serie che ha intenzione di utilizzare. Date le insufficienti informazioni fornite nell’Appendice e nel libro che stiamo commentando, così come sono le Tabelle di Felice possono essere utilizzate con molta difficoltà.13
Comunque, per quanto riguarda le differenze iniziali fra Nord e Sud, l’adozione dei confini dell’epoca non modifica l’entità del nostro divario; che, nell’anno 1891, rimane di poco inferiore al 10 per cento, come si vede nella Tabella
1. Anche ai confini dell’epoca, alcune differenze rilevanti fra i nostri risultati e quelli di Felice (come nel caso della Liguria), permangono e derivano dall’aver noi preferito, per quell’anno, le stime di Fenoaltea per il prodotto industriale, invece di quelle di Felice.

tabella1

1.6. Lazio-Campania. La modifica dei confini dall’Unità a oggi ha riguardato diverse regioni. Annessione di territori a parte, i casi più rilevanti di modifica dei confini – con redistribuzione, cioè, di territorio e abitanti tra regioni – sono quelli concernenti il Lazio e la Campania e il Lazio e l’Umbria. Ovviamente, il Pil pro capite dell’area che è oggetto della variazione territoriale rimane quello della regione di provenienza nei nostri calcoli. Dato che il caso delle variazioni territoriali fra Lazio e Campania è quello di maggiore rilievo è opportuno esaminarlo più in dettaglio.
Nel 1927 avvenne una rilevante trasformazione nei confini del Lazio e della Campania (due regioni chiave nell’elaborazione dei dati del Pil del Nord e del Sud, perché mentre il Lazio fa parte del Nord, la Campania fa parte del Sud, e, quindi, un’alterazione dei confini delle due regioni può modificare anche i confini e la popolazione del Nord e del Sud). In seguito al cambiamento dei confini Lazio-Campania, passò al Lazio una popolazione di circa 450.000 abitanti; che rappresentava più del 27 per cento della popolazione che il Lazio aveva nel 1921 nei confini dell’epoca.14
Il calcolo del prodotto ai confini attuali e non a quelli dell’epoca sarebbe stata, nelle parole di Felice, «un’operazione di grande impatto, perché alza di molto il valore della Campania (che nel 1891 salirebbe da 97 a 110, fatta 100 l’Italia) e fa crollare quello del Lazio (nello stesso anno da 137 a 105)» (p. 34). Stanno davvero così le cose?
Nel 1891 (Italia = 100), nei nostri calcoli il prodotto pro capite del Lazio è uguale a 12915 (e non a 105, come erroneamente scrive Felice a p. 34) e quello della Campania a 110, mentre in Felice il Pil pro capite del Lazio nel 1891 è pari a ben 157 (la regione di gran lunga più ricca d’Italia; la Lombardia è solo a 115), quello della Campania a 97. Per quale ragione la nostra stima del Pil pro capite del Lazio è inferiore? Ovviamente perché si aggiunge al Lazio un’area ampia con un reddito medio più basso, quello della regione di provenienza; ne consegue che la media laziale diviene più bassa. Di quanto più bassa? Come abbiamo visto nella Tab. 1, senza alcuna modifica di confini il Pil pro capite del Lazio si attesterebbe a un livello di 147; inferiore, comunque, a quello stimato da Felice. In sostanza, attribuire al Lazio e alla Campania i confini attuali anche prima del 1927 significa aumentare l’estensione del Lazio e diminuire quella della Campania. Rispetto al calcolo nei confini dell’epoca, i redditi prodotti nelle due capitali, Napoli e Roma, dei maggiori Regni italiani pre-unitari, si ripartiscono su una popolazione diversa: minore quella della Campania (e quindi il reddito pro capite sale, anche se non di molto, rispetto a quello ai confini dell’epoca) e maggiore quella del Lazio (dove il reddito pro capite risulta più basso).
Elaborare le stime considerando i confini dell’epoca, è un’operazione del tutto legittima; certo più semplice, ma non priva di inconvenienti. Vogliamo un esempio degli errori possibili in cui si può incorrere? In un volume precedente, Felice, discutendo proprio del Pil pro capite del Lazio nel quadro dei cambiamenti nella posizione economica relativa delle regioni, concludeva: «regione leader nel 1891, fra il 1911 e il 1951 [il Lazio] perde ben 40 punti rispetto alla media nazionale, parallelamente all’avanzare del Nord-Ovest con in testa la Liguria». 16 In realtà, però, il cambiamento nella posizione del Lazio dipese dall’improvviso aumento della popolazione in seguito alla revisione dei confini, e non solo da un declino relativo (che pure vi fu), come invece Felice sostiene erroneamente. Nelle nostre stime, il Pil procapite del Lazio (fatta l’Italia uguale a 100) era di 122 nel 1911 e di 104 nel 1951. Una flessione c’era stata, ma assai più modesta e – diremmo – assai più plausibile: non di 40 punti percentuali, come in Felice, ma di soli 18. Per evitare al lettore errori di questo genere, ci è sembrato opportuno effettuare l’aggiustamento dei dati regionali ai confini attuali delle regioni. Per maggiore chiarezza presentiamo nella Tabella 2 le divergenze fra Felice e noi nei dati del Pil pro capite di Lazio e Campania. Lasciamo al lettore la decisione circa la versione più plausibile (alla luce di quanto si sa dell’economia di Lazio e Campania fra fine Ottocento e 1951).

grafico4

1.7. La forza lavoro. Non solo nei dati del Pil, ma anche in quelli della forza lavoro, le stime regionali e nazionali di Felice sono diverse dalle nostre e diverse sono, perciò, anche alcune conclusioni. Felice dice, ad esempio, che «dal 1911 al 1951 nel Mezzogiorno la percentuale di addetti all’industria risulta addirittura diminuita dal 21 al 16 per cento. Al contempo la quota degli addetti all’agricoltura era rimasta stabile (intorno al 60 per cento)» (p. 109). In realtà i dati per l’epoca in esame elaborati da Vitali,17 che noi seguiamo, testimoniano che nel 1911 la quota degli addetti all’industria nel Mezzogiorno era del 20,3 per cento e nel 1951 del 22,7, mentre quella degli addetti all’agricoltura passava dal 62 al 55,4 per cento. Felice scrive che nel Mezzogiorno «la quota degli addetti all’industria sul totale non ha mai sfiorato nemmeno il 30 per cento» (p. 116), mentre, secondo i nostri dati era del 30,8 nel 1961 e del 35 nel 1971.18
Riportiamo, nella Tabella 3, per un confronto, i dati per settore a livello nazionale di Felice, di Vitali e nostri. Noi abbiamo seguito fino al 1961 le elaborazioni di Vitali nei confini attuali (con l’unica eccezione per il 1881, dove sono state accettate le revisioni di V. Zamagni riguardanti la forza lavoro industriale).19

grafico5

I criteri di Felice per l’elaborazione dei dati sulla forza lavoro non vengono mai chiariti. Per quanto riguarda i dati relativi agli anni dal 1971 in poi (il 1961 non è incluso nella Tabelle di Felice relative alla forza lavoro), non compresi nell’indagine di Vitali sulle forze di lavoro, non sappiamo da dove Felice li abbia ricavati (almeno in base al volume che commentiamo e alla relativa Appendice).
Dal 1971 noi abbiamo utilizzato i dati Istat delle indagini periodiche sulle forze di lavoro. La cifra bassa di Felice relativa al 2001 potrebbe essere stata tratta dai censimenti della popolazione, che in effetti, per le epoche recenti, sottostimano decisamente l’occupazione. In mancanza d’informazioni, tuttavia, non possiamo dire di più.
Riportiamo nella Tabella 4, per comodità del lettore, i dati nazionali e quelli relativi al Sud concernenti il tasso di attività nelle due versioni, di Felice e nostra
.
grafico6
1.8. Gli indicatori sociali. Felice ricorda, nel suo volume, a testimonianza del ritardo iniziale del Mezzogiorno post-unitario, le diversità Nord-Sud nell’alfabetizzazione, nelle stature, nelle infrastrutture, nelle strutture creditizie, nella povertà, nella mortalità, nella speranza di vita… Si tratta di elementi indiretti importanti, che anche noi avevamo riportato nel primo capitolo del nostro volume Il divario Nord-Sud. Non c’è disaccordo su questi dati e non abbiamo difficoltà ad ammettere che essi testimonino una posizione di vantaggio per il Nord; sia pure con variazioni da regione a regione sia all’interno del Nord che del Sud. Lo riconoscemmo chiaramente nel nostro volume. E tuttavia questi elementi indiretti – importanti, ripetiamo! – possono non coincidere con la gerarchia regionale del Pil pro capite. Quando mai gli indici di sviluppo umano coincidono in tutto e per tutto con i livelli del Pil pro capite? Soprattutto – aggiungiamo! – quando il prodotto pro capite dell’agricoltura (che rappresentava il 55 per cento del totale su scala nazionale all’indomani dell’Unità) risulta nel Mezzogiorno superiore a quello delle regioni del Nord e non di poco, secondo le ricostruzioni di G. Federico. Se così stanno le cose, e nonostante gli indicatori sociali che abbiamo appena ricordato, il divario fra Nord e Sud nei primi decenni dopo l’Unità non può essere stato rilevante. Ci pare possibile pensare che, in un’economia prevalentemente agricola, differenze negli indici di sviluppo umano possano non implicare differenze di reddito; anche se – bisogna aggiungere – comportano potenzialità di crescita diverse.
Due indicatori meritano un breve commento: statura e alfabetizzazione.
Felice riprende i dati sulla statura media di A’Hearn e Vecchi, che mostranol’esistenza un divario Nord-Sud.20 Da tale differenziale Felice argomenta come le condizioni di vita delle classi di età giovanili siano sempre state peggiori nel Mezzogiorno. È da osservare, preliminarmente, che la statura è un carattere influenzato sia da fattori genetici che ambientali per cui è saggio, come dice Felice, ragionare di trend, piuttosto che di livelli assoluti. Per quel che riguarda il divario nella statura, nel 1861 era di 3,2 centimetri a vantaggio del Nord. Nel 1980, il divario si attestava a 2,8 centimetri: cioè era inferiore di appena 4 millimetri rispetto a quello del 1861. Da tale dato, Felice deduce che la disuguaglianza era, nel 1861, maggiore al Sud che al Nord. Si consideri, ora, un esempio. Nel 1861, i giovani friulani erano gli italiani più alti: con i loro 166,3 cm sopravanzavano i lombardi di 2,4 cm e i laziali di
ben 3,6 cm. Era più sviluppato il Friuli della Lombardia e del Lazio? Nel 1980, ancora i friulani dominavano nella classifica delle altezze: la loro statura, come quella media nazionale era cresciuta, raggiungendo i 178 cm. E il divario con le altre regioni? Quello con la Lombardia era aumentato, passando a 2,8 cm, quello con il Lazio si era ridotto a 2,6 cm. Cosa si potrebbe dedurre da ciò?
L’alfabetizzazione costituisce certamente un substrato favorevole alla crescita. Non c’è dubbio al proposito! E non c’è alcun dubbio – come evidenziammo nel nostro volume – che le differenze nei livelli d’istruzione tra Nord e Sud sono state, per molto tempo, nette.21 Oggi il divario Nord-Sud non riguarda la quantità dell’istruzione, ma altri aspetti su cui Felice si sofferma. Si tratta dei differenziali
nelle competenze degli studenti, per come misurati dai test scolastici come quelli Pisa-Ocse, o la quota di laureati in materie scientifiche, che, nel Mezzogiorno, è minore che al Nord. Su questi aspetti del divario Nord-Sud – e in particolare su quello relativo alle differenze nei test scolastici – esiste un’ampia letteratura: i differenziali nelle competenze medie sarebbero, in larga misura, spiegati da fattori socioeconomici, dai contesti sociali e familiari di provenienza degli studenti.22 Colpisce, invece, l’interpretazione che ne dà Felice. Questi dati – dice – «confermano la resistenza del Sud Italia ad accettare e quindi a implementare la modernizzazione, che proviene dall’esterno; il che rende meno efficace anche la cornice unitaria imposta dallo stato centrale» (p.125). Il Sud sarebbe, cioè, rimasto impermeabile alla modernità illuminista che lì, dice Felice, ha vita stentata. Nel Sud persisterebbe «una visione “magica” del mondo che si rivela ad esempio nelle pratiche rituali della superstizione» (p. 126). Sarebbero, dunque, la resistenza alla modernità e una visione “magica” del mondo, a spiegare il minor punteggio nei test scolastici dei quindicenni meridionali, la carenza d’istruzione tecnica e scientifica, o il grado di diffusione delle scienze esatte nell’università di massa. Lasciamo al lettore le conclusioni.

2. L’interpretazione

2.1. Approccio istituzionalista? Dato che l’attenzione di Felice al nostro lavoro non si limita alle ricostruzioni dei dati, ma riguarda anche (e, forse, soprattutto) l’interpretazione, è il caso di soffermarci anche su questa e di confrontarla con la nostra. In questa sezione discuteremo l’interpretazione proposta da Felice. In quella seguente riassumeremo la nostra.
L’interpretazione proposta – ci dice l’autore del volume –, intorno alla quale «in alcuni suoi lavori precedenti aveva girato…, ma senza coglierne veramente il punto» (p. 14), consiste nell’accusa alle classi dirigenti del Mezzogiorno «non di colpa, ma di un reato più grave, il dolo. Imputa loro cioè – continua Felice – di avere deliberatamente ritardato lo sviluppo economico e civile del Sud Italia, a vantaggio dei propri interessi. Detto altrimenti, chi ha soffocato il Mezzogiorno sono state le sue stesse classi dirigenti – una minoranza privilegiata di meridionali – che ne hanno orientato le risorse verso la rendita più che verso gli usi produttivi» (p. 12). Qualcuno volle, cioè, un Mezzogiorno povero e perseguì coscientemente questo fine. Questa è la spiegazione nuova che Felice, dopo tanto pensare, ci dice di aver finalmente trovato.
L’autore del volume che commentiamo ricorda, al proposito, di essersi ispirato all’approccio istituzionalista all’economia. Impropriamente, aggiungeremmo noi! Acemoglu e Johnson, che Felice cita più volte, definiscono le istituzioni economiche, nella tradizione istituzionalista à la North, come l’insieme delle «regole che influenzano il comportamento dell’economia e degli incentivi che motivano i singoli individui», e quelle politiche come «le regole che presiedono alla struttura degli incentivi nell’ambito politico».23 Nel libro di Felice, in realtà, il ruolo delle istituzioni va a identificarsi con l’operato delle classi dirigenti meridionali. Secondo Felice, pur all’interno di una cornice istituzionale comune, a Nord e a Sud si sarebbero affermate istituzioni di fatto diverse. Come principali esempi, l’autore fa riferimento al clientelismo politico e alla presenza di criminalità organizzata, che rende le istituzioni economiche tra Nord e Sud diverse. In realtà è difficile dire se la criminalità organizzata costituisca un’istituzione, secondo la definizione che viene oggi data al termine, come risulta dalla citazione di Acemoglu e Johnson. Ora, che nel Mezzogiorno sia presente la criminalità organizzata è un dato innegabile, e che abbia effetti pesantemente negativi sull’economia è altrettanto innegabile.24 Ma storicamente, la criminalità di tipo mafioso caratterizzò tre regioni – o, meglio, alcune parti di tali regioni – e non le altre, cioè Abruzzo, Molise, Basilicata, Sardegna e, fino a pochi decenni addietro, Puglia. Eppure, tutte queste regioni rimasero a lungo in una situazione di ritardo.
Di istituzioni, nel senso che gli istituzionalisti danno al termine, nel libro di Felice, c’è veramente poco. Consapevole di questo, l’autore del volume che commentiamo preferisce definire il suo come un approccio «socio-istituzionale». Questo approccio in realtà non è affatto qualcosa di nuovo. È qualcosa di vecchio, ci pare! Consiste nell’insistenza sugli errori delle classi dirigenti e dei governanti di ieri e di oggi, sull’incapacità della classe media, che non seppe o non volle e che, comunque era «abortita, perversa e culturalmente subordinata all’aristocrazia (come la mafia in Sicilia); una categoria sociale dal volto oscuro, perché illegale, ma ben visibile nelle strade e sui luoghi di lavoro» (p. 71). Visioni come questa, anche se in stile diverso (per fortuna!), le abbiamo lette più volte nelle pagine dei meridionalisti.

2.2. L’ineguaglianza nel reddito. Un elemento nuovo che Felice introduce e su cui insiste ripetutamente è quello dell’ineguaglianza distributiva e dei suoi effetti perversi sulla società meridionale. Si afferma nel volume in questione che «gli indicatori sociali,… quando incrociati con le stime del Pil suggeriscono che la disuguaglianza dei redditi era nel Sud significativamente più alta che nel Centro-Nord» (p. 49). «La disuguaglianza si univa alla miseria, dunque, bloccando lo sviluppo: economico, ma anche umano e civile. Come in un cortocircuito, tragico e fatale» (p. 49). Questo «cortocircuito tragico e fatale» sarebbe anteriore all’Unità. In realtà solo luoghi comuni vengono ricordati nel libro come prove dell’ineguaglianza nella distribuzione personale del reddito; con inesattezze, per di più. Vediamo qualche esempio!
Felice scrive che «nel Mezzogiorno continentale di fine Settecento le famiglie possidenti ammontavano a circa 600, cui si aggiungevano una cinquantina di baroni ecclesiastici per un totale di poche migliaia di teste, circa l’1 per mille della popolazione complessiva» (p. 53). Ora, a meno che il termine di «possidente» non venga da Felice usato in qualche particolare accezione, che nel testo non viene riportata, e se per «possidente», come nei documenti dell’epoca relativi al Regno di Napoli, s’intende colui che era proprietario di beni immobili ed era, perciò, sottoposto all’imposta fondiaria, la cifra di Felice non può essere più lontana dalla realtà. Nei censimenti della popolazione degli anni 1811-14, che riguardano tutto il Regno di Napoli (senza la Sicilia), e corrispondono, dunque, a quello che Felice definisce «Mezzogiorno continentale», il termine di «possidenti» viene attribuito a 815.762 abitanti e cioè al 16 per cento della popolazione (di 5.029.188 abitanti).25 Solo a Napoli i «possidenti» erano 34.305. In base ai dati fiscali dell’epoca, nel 1834 esisteva nel Regno di Napoli un «elevatissimo numero di possidenti»; 26 in tutto 1.062.172 individui, in 17 per cento della popolazione, allora di 6.102.022 abitanti.27 Se andiamo a leggere il brano di P. Villani da cui Felice ricava la notizia dei 600 possidenti, troviamo che la cifra di «600 (oltre a una cinquantina di baroni ecclesiastici)» si riferisce – sono le parole di Villani – ai «baroni con giurisdizione su feudi abitati, che costituivano la parte di gran lunga più ricca e potente dell’aristocrazia feudale meridionale». 28 Questi «baroni con giurisdizione su feudi abitati» diventano in Felice «possidenti». Con solo 600 famiglie possidenti (più 50 baroni ecclesiastici) nel Regno di Napoli a fine Settecento, l’ineguaglianza nella distribuzione della proprietà fondiaria sarebbe assai forte: l’1 per mille della popolazione possederebbe il 100 per cento dei beni immobili. Se invece i possidenti sono il 16-17 per cento della popolazione, allora le cose cambiano molto e, alla luce di quanto sappiamo sulle economie pre-moderne, il caso del Regno di Napoli non appare più così eccezionale. Diremmo, anzi, che è del tutto normale.
A sostegno di quanto afferma sulla grande disuguaglianza dominante nel Mezzogiorno Felice riporta il caso di Castellammare di Stabia a metà Settecento. Si tratta di una comunità di 9.242 abitanti, sui 3.900.000 che contava il Regno di Napoli all’epoca. 29 Felice ricorda opportunamente lo studio importante e oggi dimenticato di Giuseppe De Meo, «Distribuzione della ricchezza e composizione demografica in alcune città dell’Italia meridionale alla metà del secolo XVIII», in “Annali di Statistica”, serie VI, XIX, 1931, pp. 1-92. La base documentaria della ricerca di De Meo erano i catasti onciari di metà Settecento. Scrive Felice che, «a Castellammare… su 2.434 abitanti sopra i 18 anni, 119 nobili e 96 ecclesiastici si spartivano il 64 per cento del reddito complessivo; di questo, circa la metà, cioè quasi un terzo (32,7 per cento) del totale risultava accaparrato dai 24 nobili (“patrizii”), che rappresentavano appena l’1 per cento degli abitanti» (p. 54). 30 Felice si dimentica, però, di riferire quanto De Meo (che siamo andati volentieri a rileggere) scriveva a p. 16 del suo saggio, e cioè che «è evidente… che non possono ricavarsi dagli onciarii gli elementi sufficienti ed appropriati ad uno studio statistico dei redditi globali (redditi da immobili, da capitale e da lavoro), ma solamente quelli derivanti dagli immobili e dai capitali (esclusi i redditi da lavoro)». Comprendendo i salari e gli stipendi, come si dovrebbe fare per avere una visione realistica della distribuzione dei redditi, le cose cambierebbero e i redditi da proprietà di beni immobili e capitali riuscirebbero inevitabilmente molto ridimensionati. Non troviamo qui quella «considerazione che si vuole massima per le fonti», a cui Felice dice di ispirarsi nell’Introduzione al suo lavoro (p. 8).
Che nel Mezzogiorno la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi fosse elevata non sappiamo; che fosse maggiore che nel Nord non sappiamo; che un elevato pauperismo sia indice di ineguaglianza, come Felice scrive, è cosa discutibile; può anzi tradursi in una minore disuguaglianza.31 Una società con la grande maggioranza di poveri e con pochi ricchi è meno ineguale di una società con ampia presenza di classi medie, quando misurata con i consueti indici di concentrazione, quali quelli di Gini e di Theil. Che questa «enorme concentrazione della ricchezza e delle rendite» (p. 54), che caratterizzava il Sud, esistesse in altri paesi della «periferia europea» come la Spagna e la Russia, «ma non nel resto della penisola» va dimostrato; e non ci pare compito facile! In realtà, anche per la fine dell’Ottocento, è stato scritto di recente che «le stime non riescono… efficacemente a identificare l’andamento della disuguaglianza nelle regioni meridionali». 32 Sembra, tuttavia, che all’epoca essa fosse inferiore a quella dell’Italia settentrionale, a quanto si mostra nello stesso saggio. Sembra anche che solo dall’inizio del Novecento l’ineguaglianza nel Mezzogiorno abbia superato quella del Nord. Si tratta di considerazioni ancora ipotetiche; che vanno in direzione opposta a quella delle affermazioni di Felice a proposito della grande ineguaglianza pre-unitaria nel Mezzogiorno.

2.3. Il capitale sociale. Il termine capitale sociale è assai elusivo. Studi condotti a livello internazionale rivelano come indicatori di capitale sociale (la fiducia intersoggettiva, ad esempio) siano correlati con la crescita economica. Nel caso dell’Italia, la carenza di capitale sociale è stata indicata come una causa del ritardo economico meridionale.33 Contrariamente alla nota ipotesi di R. Putnam, secondo cui le differenze di capitale sociale tra Nord e Sud si sarebbero create nel basso medioevo, Felice sostiene che il depauperamento del capitale sociale del Sud sarebbe avvenuto «in quella lunga fase di transizione alla modernità che va dal Settecento all’Unità d’Italia» (p. 195). È in quella fase che si sarebbero consolidate «istituzioni estrattive», disfunzionali allo sviluppo. Così, mentre al Centro-Nord la mezzadria34 avrebbe favorito i valori della cooperazione, al Sud il latifondo avrebbe avuto effetti opposti, producendo famiglie ristrette, mononucleari, meno inclini alla cooperazione.
Effettivamente, i dati riportati da Felice (Appendice online, Tab. A.13) mostrano come già nel 1871 esistessero significativi divari Nord-Sud nel capitale sociale. In quell’anno le regioni meridionali presentavano una dotazione pari al 67 per cento di quella italiana. Se si osservano i dati di alcune regioni si riscontrano, tuttavia, elementi non sempre in linea con le ipotesi dell’autore. Per esempio, nel 1871, il Veneto aveva un livello di capitale sociale pari a 73 e le Marche pari a 63 (Italia = 100), cioè livelli relativamente inferiori a quello della Sicilia (98), della Puglia (85), e della Sardegna (70). Sulla base delle premesse sopra richiamate, ci si aspetterebbe di trovare livelli maggiori di capitale sociale in Veneto e nelle Marche della mezzadria, che non nella Sicilia dei latifondi o nella Sardegna del «codice barbaricino»!
Ora, che tra Sud e Nord vi sia un divario in tutta una serie di indicatori di civicness ci pare incontrovertibile. Ciononostante, nel caso italiano, il ruolo del capitale sociale nella crescita economica di lungo periodo non è del tutto chiaro. In un suo articolo, Felice35 ha esaminato il ruolo del capitale sociale nella crescita regionale, comparando i risultati ottenuti con stime cross-section (OLS) e panel per il periodo 1891-2001 e in diversi sottoperiodi. Nelle stime sezionali, l’indicatore di capitale sociale risulta altamente e
positivamente correlato alla crescita regionale nel periodo 1911-38, assai debolmente in quello 1938-51 e, di nuovo, significativamente nel ventennio 1981-2001. È da notare che le regressioni cross-section danno, per altri anni, risultati assai deboli dal punto di vista statistico, mentre i risultati più significativi (R2 = 0,89; F = 61,9) si hanno per il periodo 1951-71, in cui si osserva un’elevata correlazione inversa tra i tassi di crescita regionali e il livello del Pil procapite nel 1951, segno di convergenza economica.36 In tale ventennio, tuttavia, il capitale sociale non ha alcun legame con la crescita. Felice, forse consapevole delle contraddizioni che emergono dalla ricerca, nel suo libro afferma che il capitale sociale ha sicuramente un impatto sulla crescita, ma che questo non è costante nel tempo: «appare meno forte in età liberale e negli anni del miracolo economico; diventa cruciale negli ultimi decenni. Il suo peso è aumentato con il mutare dei regimi tecnologici, cioè con il passaggio dal fordismo al postfordismo» (pp. 221-22). In realtà, i risultati ottenuti da Felice nel suo articolo del 2012 lasciano pensare il contrario: è tra il 1911 e il 1938, in pieno fordismo che, almeno dal punto di vista econometrico, il ruolo del capitale appare più forte.
La spiegazione dell’intermittente legame statistico tra capitale sociale e crescita è, a nostro avviso, più semplice. Nel 1911-38, il divario Nord- Sud, si ampliò molto: furono, cioè, le regioni più avanzate, e con maggior capitale sociale (quelle del Nord), a crescere a tassi maggiori di quelle del Sud. Ciò può aiutare a spiegare il forte legame positivo tra capitale sociale e crescita. Nel periodo 1951-71, la situazione si inverte: è, quella, una fase di convergenza, quindi sono le regioni con mi-
nor capitale sociale, quelle meridionali, a crescere a tassi comparativamente maggiori. In effetti, come prevede la teoria neoclassica, per quel periodo si riscontra una correlazione inversa tra livello iniziale del reddito e crescita economica. Paradossalmente, si potrebbe pensare che minor cooperazione e partecipazione politica e sfiducia diffusa siano stati, tra il 1951 e il 1971, fattori di crescita regionale. Insomma, almeno stando ai dati, in Italia, il capitale sociale non sembra aver avuto alcun ruolo nelle fasi di convergenza economica, ma solo in quelle di divergenza.

2.4. La geografia. In critica con la nostra analisi, Felice esamina il ruolo della geografia, inizialmente negandole ogni rilevanza, perché avrebbe un carattere deterministico e, quindi, assolutorio nei confronti di quei meridionali che sono colpevoli del divario Nord-Sud. Tuttavia, le sue argomentazioni sono contraddittorie. Scrive, infatti: «Indubbiamente il Sud si è trovato penalizzato nella distribuzione delle infrastrutture di trasporto: se non era sfavorito geograficamente in partenza, lo è diventato dopo. […] Probabilmente la sperequazione si deve a ragioni storiche di mercato – vi erano maggiori opportunità nel Nord Italia che si andava industrializzando e che già aveva una migliore rete dei trasporti – ma qui poco importa» (p. 205). E ancora: «Agevolò il Nord anche qualche vantaggio naturale, in particolare la maggiore disponibilità di risorse idriche (il carbone bianco) per lo sfruttamento dell’elettricità, ma fu questa una condizione facilitante, non necessaria. Soprattutto, nulla lascia supporre che se anche il Mezzogiorno fosse stato ricco di fonti energetiche (corsi fluviali, o anche prodotti fossili), queste sarebbero state ugualmente ben sfruttate» (p. 214).
Nei modelli di geografia economica si usa distinguere tra first e second nature. I fattori di first nature sono quelli geografici in senso stretto (disponibilità di risorse naturali, accesso al mare o a canali navigabili, morfologia dei territori). Quelli di second nature sono le infrastrutture, la dimensione dei mercati e la presenza di altre imprese. È possibile, come afferma Felice, che tali fattori non siano stati la causa determinante del divario iniziale – e come avrebbero potuto esserlo, se il mercato interno non era ancora integrato, e la distribuzione delle imprese ancora rifletteva quella dei vecchi stati preunitari-. Riteniamo – e pare che anche Felice lo faccia – che i fattori geografici abbiano agito in tutta la prima metà del Novecento, e forse anche negli anni seguenti, nell’influenzare la localizzazione industriale, e, quindi, il divario Nord-Sud. Come descritto dai modelli della nuova geografia economica, man mano che il mercato italiano s’integrò, l’industria si concentrò nel mercato principale e il Sud periferico divenne un grande mercato di sbocco. Ci pare evidente che, con l’avvio dell’industrializzazione, la dimensione del mercato interno e la prossimità ai grandi mercati europei abbiano avvantaggiato il Nord e penalizzato il Sud, carente di infrastrutture e distante oltre 1000 chilometri da quei mercati.

2.5. La storia in negativo. Riprendendo le considerazioni sparse nel volume a proposito della storia del Mezzogiorno, Felice ritiene che una vera diversità fra Nord e Sud non sia da ricercare nel tardo Medioevo e neppure all’epoca della dominazione spagnola, «la quale, pur nociva non pare decisiva» (p. 195). Neppure risalirebbe al primo Settecento: «per quel che ne sappiamo – dice –, ancora nella prima metà del Settecento fra il Mezzogiorno e il Nord Italia non si notano sostanziali differenze nel rendimento delle istituzioni» (p. 194). Cosa sia e come si possa misurare il «rendimento delle istituzioni» non viene indicato e noi non sappiamo.
Delle vicende dell’economia del Mezzogiorno non si fornisce, nel libro di Felice, una vera ricostruzione. Sulla raccolta ed elaborazione dei dati di fatto prevale la denuncia e l’accusa. I governi non fecero e le classi sociali non furono capaci di… Scrive Felice a p. 224: «ci fosse stato nel Mezzogiorno un adeguato contesto socio-istituzionale, ci fossero state cioè istituzioni inclusive e maggiore partecipazione sociale, allora sì, avremmo avuto un più alto capitale umano, un adeguato capitale sociale, migliori infrastrutture. E le cose sarebbero andate diversamente». E, poi, gli strali sulle risorse assorbite dal Mezzogiorno: «Ai nostri giorni, le spese dello stato tanto per la sanità, quanto per l’istruzione, sono in rapporto al reddito (e alla contribuzione) maggiori al Sud che al Nord; e sono maggiori le spese totali dello stato per abitante, in tutte le regioni del Sud, di norma di 20-30 punti percentuali sulla media italiana» (p. 211). È il caso di ricordare a Felice, che istruzione e sanità sono diritti di cittadinanza, che la Costituzione assicura a tutti gli italiani, indipendentemente dalla propria condizione economica – ci mancherebbe che quei diritti dipendessero dal reddito o dalla capacità contributiva-. È la stessa Costituzione ad assegnare all’azione pubblica una funzione redistributiva, che avviene tra cittadini. Nulla hanno a che fare con essa i territori.37 Quanto alla spesa pubblica per abitante, il dato semplicemente non ha alcun fondamento: la spesa pubblica per abitante è nettamente inferiore al Sud rispetto al Nord – tra il 1996 e il 2011, la spesa totale primaria per abitante è stata mediamente di 10.650 euro al Nord e di 8.735 al Sud – e paradossalmente, lo è anche quella cosiddetta “per lo sviluppo”38.
Insomma, il tono del libro di Felice è quello accusatorio comune a tanta storiografia italiana: una storiografia volta spesso a sottolineare – è stato scritto molto giustamente – «ciò che non è avvenuto, a dare, dunque, giudizi soltanto in negativo, come conseguenza di un confronto fra aspetti o momenti del passato con uno schema ideale di sviluppo, con un modello teorico, assunto come un dover essere: si arriva così a rilevare che quel modello, quello schema, non è stato rispettato e di conseguenza ci si limita a giudicare in negativo ciò che di fatto è avvenuto. È possibile, invece, che a noi occorra capire, piuttosto, in positivo, attraverso quali processi reali, combinazioni di meccanismi economici… non per lamentare ciò che non è stato realizzato, ma per riconoscere come si sia affermata e di quali elementi… sia risultata costituita una realtà complessa». 39 Questo è quanto ci veniva insegnato anni fa e che continuiamo a ritenere importante. Non crediamo che la denuncia e l’ideologia siano le vie da percorrere nel campo della ricerca storica in generale, non solo nella storiografia economica.

3. Il nostro punto di vista

3.1. I divari regionali. Nel nostro libro su Il divario Nord-Sud, proprio questa analisi in positivo avevamo cercato di proporre, stanchi dei lamenti e delle recriminazioni di tanta pubblicistica di ieri e di oggi sul Mezzogiorno. Dato che Felice a questa nostra interpretazione fa qua e là riferimento in maniera polemica, non pare inutile richiamare brevemente quanto dicevamo nel nostro volume e quanto abbiamo aggiunto di recente.40
A noi è sembrato che la vicenda particolare dell’economia del Mezzogiorno italiano potesse essere chiarita con la ricostruzione dell’operare delle forze economiche durante la crescita moderna piuttosto che con le scelte sbagliate di governi e con le incapacità delle classi sociali. La vicenda del Mezzogiorno può, a nostro giudizio, essere vista come lo sviluppo particolare che il processo della crescita moderna ha assunto nel nostro paese.
Il punto di partenza, a metà Ottocento, è quello tipico delle economie premoderne. Dato che il reddito pro capite è molto basso, grandi differenze nei livelli medi regionali non si possono dare. Prima del 1861, le forze della localizzazione industriale agivano all’interno di Stati: i confini nazionali, si sa, in economia contano. La distribuzione delle attività economiche rifletteva, cioè, le convenienze relative all’interno degli Stati preunitari e i mercati erano, principalmente, regionali. Nei primi decenni dopo l’Unificazione, un Nord e un Sud non sono ancora ben distinguibili. Carenze infrastrutturali e alti costi del trasporto fanno sì che il mercato nazionale non sia ancora integrato. La distribuzione delle attività economiche è ancora, in larga misura, quella precedente.
Il processo d’industrializzazione, che è un processo diffusivo che dall’Inghilterra “contagia” dapprima le aree più vicine, comincia a interessare, dalla fine dell’Ottocento, anche l’Italia. All’epoca della Seconda Rivoluzione Industriale sono soprattutto le regioni del Nord ad esserne interessate, per alcune condizioni favore- voli iniziali: prossimità geografica ai grandi mercati europei, dotazioni di risorse fisiche, quali le cadute d’acqua, che sono all’epoca importanti risorse energetiche.41 Se i fattori geografici sono fondamentali, anche altri, come scelte di politica economica e un maggiore capitale umano, hanno certo avuto un ruolo.
L’industrializzazione avviene in un’area geograficamente limitata del paese: il Nord-Ovest. Ovviamente, ciò comporta un aumento dell’ineguaglianza regionale nel prodotto pro capite perché significa, prima di tutto, maggiori opportunità d’impiego e salari più alti in conseguenza della più elevata produttività del lavoro nelle zone che si vanno industrializzando. Alcune aree o regioni si distaccano, o accrescono il modesto distacco che già esisteva, dalla diffusa povertà di un’economia agricola matura. Nelle regioni che si industrializzano, la crescita diviene cumulativa: le economie di scala incentivano le imprese in un’unica localizzazione in prossimità di mercati ampi; economie di agglomerazione di tipo marshalliano offrono ulteriori incentivi alla localizzazione industriale; le aree industriali attraggono popo-lazione da altre regioni e ciò fa crescere la dimensione del mercato e il volume delle attività economiche. Nel tempo, la concentrazione industriale cresce e lo spazio geografico diviene polarizzato.
Di conseguenza le ineguaglianze regionali si accentuano. Nel 1911, il 55 per cento del valore aggiunto industriale proveniva dal Triangolo industriale; solo il 16 per cento dal Sud.42 Durante l’epoca fascista il processo diffusivo dell’industria avviene soprattutto nel Nord. Interessa ancora poco il Mezzogiorno. Nel 1936, nelle regioni Triangolo viveva il 25 per cento della popolazione italiana e si produceva il 36 per cento del reddito nazionale. Nel 1951, la quota del reddito sfiorava il 40 per cento. Quando, però, dagli anni Cinquanta, l’industrializzazione si diffonde e coinvolge aree sempre più ampie, si procede verso una minore ineguaglianza fra le regioni: l’industria si diffonde al Nord-Est, al Centro e interessa anche il Sud. Il Mezzogiorno riduce le distanze. Se la concentrazione geografica dell’industria si era associata a divergenza regionale, la dispersione si associa a convergenza economica. In breve esiste una stretta (ovvia) connessione tra grado di concentrazione industriale e divari regionali.
Il fatto che il settore industriale, che è stato il nucleo centrale della crescita, cominci a indebolirsi dalla fine degli anni Settanta e che poi anche la crescita stessa, negli ultimi due decenni, si sia interrotta comporta il permanere di ineguaglianze regionali. Quanto abbiamo appena detto a proposito delle ineguaglianze regionali
nell’industrializzazione è riassunto visivamente nella Figura 3, in cui l’andamento della concentrazione regionale dell’industria è basata su stime della percentuale della forza lavoro industriale per regione sul totale della forza lavoro.

grafico7

La logica è quella che S. Kuznets aveva individuato nell’ineguaglianza nella distribuzione personale del reddito nelle fasi della prima industrializzazione e che J. Williamson estese alle ineguaglianze regionali in un importante saggio del 1965.43 L’evoluzione dei divari regionali seguirebbe, nel tempo, un andamento simile a una U rovesciata, cioè i divari aumenterebbero in una prima fase dello sviluppo economico nazionale, per ridursi in una seconda. Come mostrano recenti studi,44 l’andamento a U è connesso al grado di concentrazione geografica delle attività economiche: all’inizio viene percorso il braccio ascendente della U rovesciata, quando l’industria è ancora molto concentrata, poi il braccio discendente, quando l’industrializzazione coinvolge anche le regioni in ritardo di sviluppo. Tutto questo è accaduto anche in Italia, come mostra bene il calcolo dell’indice di Theil regionale rappresentato nella Figura 4. Guardando la curva più sottile si vede che l’evoluzione dei divari regionali (fra tutte le regioni e non solo fra Nord e Sud) in Italia cresce fino al 1951 e poi diminuisce; segue, cioè, lo stesso percorso della concentrazione industriale nella Figura 3. Questa diminuzione delle ineguaglianze regionali avviene soprattutto negli anni della maggiore industrializzazione del nostro paese, grosso modo fra il 1955 e il 1975. Oggi le ineguaglianze regionali non sono molto più elevate di quanto fossero a fine Ottocento. Ammettendo che a fine Ottocento i divari fossero superiori a quelli da noi stimati (prendendo, ad esempio, i divari di Felice), l’andamento della curva dell’indice di Theil non cambierebbe (in base alle prove da noi fatte).

grafico8

3.2. Il divario Nord-Sud. Dato che l’indice di ineguaglianza di Theil può essere scomposto, nella Figura 4 viene anche mostrato il risultato della scomposizione. La curva più spessa mostra, infatti, l’andamento del divario fra Nord e Sud e rivela quanto esso abbia contato nel divario regionale nel suo complesso nel nostro paese. Si vede bene che col tempo, e soprattutto dagli anni Sessanta del Novecento in poi, è contato sempre di più. Anche in questo caso, ammettendo per la fine dell’Ottocento un divario Nord-Sud maggiore di quanto da noi stimato, le cose non cambierebbero.
Si potrebbe dire che, nel corso dell’ultimo secolo, si sia verificato un cambiamento nella localizzazione dell’ineguaglianza regionale. Mentre un secolo e mezzo fa l’ineguaglianza era “dispersa” sia nel Nord che nel Sud, in seguito si è concentrata nelle due sezioni del paese. In altre parole c’è stata convergenza tra le regioni che compongono il Nord e quelle che compongono il Sud, ma c’è stata di-
vergenza fra Nord e Sud. Secondo un altro calcolo da noi proposto in un recente articolo,45 l’ineguaglianza fra Nord e Sud costituiva un 20 per cento circa dell’ineguaglianza regionale in Italia a fine Ottocento, mentre oggi conta per l’85 per cento.46 Anche in questo caso, abbiamo verificato che accrescendo il divario Nord-Sud per fine Ottocento, il cambiamento nei nostri dati sarebbe impercettibile.

Conclusione

Secondo noi, in una prospettiva di lungo periodo, lo sviluppo economico regionale appare legato a forze economiche fondamentali che operano nel processo della crescita moderna. È vero che, nella complessità del mondo reale, anche altri fattori possono imprimere un vantaggio a un’area determinandone il successo. Non li abbiamo trascurati in quanto abbiamo scritto al proposito. Le politiche economiche possono incentivare la localizzazione industriale; le infrastrutture migliorare l’accesso ai mercati e ridurre i costi di trasporto; la qualità del capitale umano può favorire l’innovazione; la criminalità scoraggiare gli investimenti. Insomma, esiste
un mix di fattori che influenzano la traiettoria di crescita di una regione. Abbiamo trattato tutti questi temi nel nostro volume. Quelle qui richiamate sono soltanto le linee fondamentali di sviluppo. Quello che fermamente non crediamo è che una storia ideologica del Mezzogiorno e le accuse a governi o classi politiche del passato ci possano aiutare a veder meglio le cose. La storia di Felice è la solita storia in negativo a cui le discussioni sulla questione meridionale ci hanno abituato da decenni e decenni. Sarebbe ora di cambiare – pensiamo –!
Mentre nell’accertamento dei fatti le differenze fra i nostri lavori e quelli di Felice sono, come si è mostrato, relativamente modeste, sia nelle finalità della ricerca che nell’interpretazione, il divario, per così dire, è ormai forte e insanabile.

Vittorio Daniele, Università «Magna Graecia» di Catanzaro
Paolo Malanima, Università «Magna Graecia» di Catanzaro

NOTE

1 Le indicazioni di pagina fra parentesi si riferiscono tutte, quando non indicato diversamente, al volume di E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Bologna, il Mulino, 2013. Faremo anche riferimento all’Appendice online al libro.
2 E. Felice, «Il reddito delle regioni italiane nel 1938 e nel 1951. Una stima basata sul costo del lavoro», in Rivista di Storia Economica, XXI, 2005, pp. 3-30; Id., «Il valore aggiunto regionale. Una stima per il 1891 e per il 1911 e alcune elaborazioni di lungo periodo (1891-1971)», in Rivista di Storia Economica, XXI, 2005, pp. 273-314.
3 I nostri commenti riguarderanno, tuttavia, soprattutto la Fig. 1.A, dato che, nel suo volume, Felice non commenta la serie a parità di potere d’acquisto; che, però, riporta nell’Appendice online Tab. A.6.
4 Nel nostro volume su Il divario Nord-Sud, si vedano le Appendici da p. 183 a 243. Si veda anche l’Appendice all’articolo di V. Daniele, P. Malanima, «Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004)», in Rivista di Politica Economica, 2007, XCVII, pp. 1-49.
5 A. Baffigi, National accounts 1861-2011, in The Oxford handbook of the Italian economy since Unification, ed. by G. Toniolo, Oxford University Press, Oxford, 2013, pp. 157-86.
6 Il capitolo a cui ci riferiamo è quello di A. Brunetti, E. Felice, G. Vecchi, Reddito, pp. 209-34 e Appendice statistica, p. 427.
7 Il periodo successivo al 1951 è ricostruito in base alle fonti cit. nel nostro Il divario Nord-Sud, pp. 190-91.
8 Lo avevamo già osservato in V. Daniele, P. Malanima, Il prodotto delle regioni e il divario Nord- Sud in Italia, Appendice.
9 Nella preparazione dell’articolo Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia, pubblicato nel 2007.
10 In realtà il capitolo sul Reddito, nel volume a cura di Vecchi, è firmato da A. Brunetti, E. Felice e G. Vecchi. La citazione è a p. 234. É evidente, tuttavia, che le stime regionali sono opera di Felice.
11 P. Malanima, Prezzi e salari, in Il Mezzogiorno prima dell’Unità. Fonti, dati, storiografia, a cura di P. Malanima, N. Ostuni, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013, pp. 339-94.
12 In questo abbiamo seguito O. Vitali, Aspetti dello sviluppo economico italiano alla luce della ricostruzione della popolazione attiva, Istituto di Demografia, Roma, 1970, pp. 221-61, che specifica con molta chiarezza i cambiamenti nei confini regionali. Ci siamo serviti anche delle stime Istat e Svimez della popolazione a confini attuali e confini dell’epoca.
13 Aggiungiamo che anche il fatto che il Pil pro capite del Molise sia calcolato insieme a quello dell’Abruzzo fino al 1951 e separatamente dopo e che la Val d’Aosta sia inclusa nel Piemonte fino al 1938 e non più dopo, non facilitano l’utilizzazione della Tab. A.1 (Appendice online) del Pil pro capite regionale.
14 Vitali, Aspetti dello sviluppo economico italiano, cit., p. 250.
15 Che, come si è visto nella Tab. 1, sale a 147 se effettuiamo i nostri calcoli ai confini dell’epoca.
16 E. Felice, Divari regionali e intervento pubblico, il Mulino, Bologna, 2007, p. 127.
17 Nel citato Vitali, Aspetti dello sviluppo economico italiano. Ripresi anche da V. Zamagni, «A century of change: trends in the composition of the Italian labour-force, 1881-1981», in Historical Social Research, 44, 1987, pp. 36-97.
18 I dati sono riportati nel nostro volume Il divario Nord-Sud, pp. 234 ss. Una redazione finale del nostro saggio The changing occupational structure of Italy 1861-2001. A national and regional perspective, in corso di stampa in un volume curato da L.M.W. Shaw Taylor e O. Saito, è

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