Nisbet, moderno conservatore

di Alberto Mingardi, del 29 Gennaio 2013

Sole 24 Ore – 27 gennaio 2013

Nisbet ricostruisce l’albero genealogico di questa corrente di pensiero, trovandone il padre nobile in Edmund Burke. L’altro suo autore di riferimento è Alexis de Tocqueville. Nisbet non s’accontenta del Burke delle Riflessioni sulla rivoluzione in Francia esattamente come non si accontenterebbe del Tocqueville della Democrazia in America. Il suo Burke è anche il difensore delle colonie americane e l’autore dei Pensieri sulla scarsità, opera scritta nel 1795 su commissione di William Pitt il Giovane. In quel lavoro «non si evince la benché minima differenza tra Burke e il suo amico Adam Smith» perché «il laissez-faire e la decentralizzazione sono per Burke valori altissimi». Non troppo diversamente, per Tocqueville «il governo dev’essere forte» ma «l’amministrazione, nell’interesse della libertà e dell’ordine, deve essere il più possibile decentralizzata e non troppo appariscente».
A confortare il conservatore in questa preferenza per un ordine decentrato è la sua stella polare: la storia. «La storia, per il conservatore, è quel tipo di forza che per l’evoluzionista biologo è la selezione naturale. (…) Soltanto i processi di selezione con il continuo ripetersi di prove ed errori rendono possibile la splendida realtà del mondo biologico. Nella selezione naturale è radicata una saggezza superiore a ogni immaginabile erudizione umana». La storia, come l’evoluzione, è un setaccio. Separa le istituzioni buone, che reggono lo scorrere dei tempi, da quelle cattive, che soccombono nel processo evolutivo (tesi cara ai Darwinian conservatives contemporanei, come Larry Arnhart). Il conservatore è parimenti convinto che questa selezione attraverso tentativi ed errori non possa essere accelerata senza inquinare l’ecosistema istituzionale.
Non a caso, l’approccio di Nisbet alla comunità, come nota Spartaco Pupo, è tutt’altra cosa rispetto a quello dei comunitaristi che fanno coincidere «domanda di comunità» e «apparato di potere statale». Il conservatorismo di Nisbet è una filosofia degli argini, parte da una ricognizione di quelle istituzioni e di quelle aggregazioni spontanee di persone che sono sopravvissute al setaccio, e si pone il problema di difenderle e tutelarle. Da che cosa? Dalla rivoluzione francese e dal suo lascito. Il 1789 è, agli occhi di Burke e della sua progenie, il momento in cui la politica smette di essere un tentativo perfettibile di rispondere ai problemi di una collettività, per incarnare l’ambizione di progettare la società.
La distanza fra conservatori e liberali è nell’individualismo di questi ultimi. Nonostante difenda la proprietà privata, per il conservatore l’individuo altro non è che un fantoccio ideologico, mentre gli uomini sono sempre “radicati” nella realtà sociale.
Eppure, per quanto poco sia “individualista” in teoria, Nisbet lo è moltissimo in pratica. «Il sogno del populista è l’incubo del conservatore: una società in cui sono abrogate le limitazioni costituzionali sul potere diretto del popolo». Il suo è un conservatorismo che ha scarsa pazienza con le «crociate morali e militari» care alla destra.
Non è solo questione di prudenza. È una forma di rispetto per la complessità del reale. Nisbet sostiene che il successo dei conservatori ha fatto apprezzare ai liberali e ad alcuni socialisti (Proudhon) l’importanza del pluralismo istituzionale. Il dio dei conservatori, la storia, non è privo d’ironia: ha affidato la scoperta di una dei più importanti presidi della libertà dell’individuo, proprio a coloro che l’individualismo lo rifiutano.

Di Alberto Mingardi

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