Michael Oakeshott. Il governo tra due fuochi (Domenica (Il Sole 24 0re))

di Alberto Mingardi, del 16 Dicembre 2013

da Domenica (Il Sole 24 0re) del 15 Dicembre

Michael Oakeshott è con tutta probabilità il massimo filosofo conservatore del secolo scorso – ma nel nostro Paese è autore poco frequentato e per nulla discusso. Nel 1985, il Mulino ne pubblicò l’opera maggiore, “La condotta umana”. Da allora, più nulla. Bisogna allora davvero esser grati ad Agostino Carrino, che ora ne ha tradotto uno dei libri più belli: “La politica moderna fra scetticismo e fede” (Rubbettino Editore). Il titolo originale sarebbe: “The Politics of Faith and the Politics of Skepticism”. Ma la scelta del traduttore è molto assennata: chiarisce sin da subito, infatti, che l’oggetto della riflessione di Oakeshott sono due «stili» di governo, due costellazioni di idee e obiettivi politici. L’una e l’altra segnano, in rapporto dialettico, la modernità. L’attività politica è «stata in tutte le epoche, anche quando si è mossa lontana in una o l’altra di queste direzioni, la risultante di entrambe queste spinte e non la conseguenza di una sola di esse».
A rivelarcelo è proprio l’ambiguità del nostro vocabolario politico, costretto da sempre «a servire due padroni». La politica della fede interpreta l’attività del governo come un tentativo di «perfezionamento» della natura umana. «Coloro i quali abbracciano questo stile di politica ritengono che gli uomini siano le creature delle loro circostanze e che, di conseguenza, la loro perfezione si identifichi con una condizione di quelle circostanze». Compito dello Stato diventa allora controllare e organizzare la vita delle persone, per condurle ad una perfezione e a una salvezza tutte terrene.
La politica dello scetticismo è invece una reazione «alle circostanze che hanno reso possibile la politica della fede», ovvero «l’immenso ampliamento della capacità umana di controllare l’attività degli uomini». Entrambe sono forme della politica moderna: il perfezionamento dell’uomo tramite mezzi politici è impensabile senza quegli strumenti che rendono tecnicamente possibile una gestione capillare e inquisitiva della società. Proprio perché esistono, qualcuno li rifiuta.
La politica della fede è razionalistica: vuole sostituire un ordito confuso di istituzioni e costumi con un progetto ben definito, pensato e scelto per raddrizzare finalmente il legno storto che siamo. Lo scettico crede che non ne sappiamo abbastanza, delle ipotetiche condizioni della perfezione umana, per farne la priorità nell’esercizio dei pubblici poteri. «Ciò che deve essere migliorato non sono gli esseri umani, o la loro condotta, e nemmeno le condizioni dell’uomo intese in senso ampio, bensì il sistema esistente dei diritti, dei doveri e degli strumenti di indennizzo».
In un caso la politica è investita con la missione specifica di smontare e rimontare i rapporti sociali. Nell’altro invece l’attività di governo non viene messa a disposizione di nessuno che abbia un suo progetto da promuovere o da imporre. Il suo compito diventa invece la buona manutenzione del diritto.
Si identifica dunque con la «rule of law», col predominio della dimensione giuridico-formale su quella «sostanziale». Il governo scettico è più magistrato che legislatore.
Lo stile scettico si verifica nel rapporto con le istituzioni e le tradizioni sociali: che non vanno travolte ma semmai comprese, proprio perché sono già passate al setaccio della storia. «Le migliori istituzioni, nel giudizio dello scettico, sono quelle il cui carattere è sia stabile sia autocritico, le quali si riconoscono come il ricettacolo di un frammento benefico di potere, ma rifiutano l’inevitabile invito all’assolutismo».
Questi modelli ideali si ripropongono e si sovrappongono nella storia politica e nella storia del pensiero. «Due delle tre grandi rivoluzioni cominciarono nello stile dello scetticismo; e mentre la prima finì nella costituzione più profondamente scettica del mondo moderno, la Rivoluzione francese fu presto deviata sul sentiero della fede».
Gli autori scettici sono per Oakeshott «Spinoza, Pascal, Hobbes, Hume, Montesquieu, Burke, Paine, Bentham, Hegel, Coleridge, Calhoun e Macaulay». Si può ben dire che è una galleria di ritratti mal assortita e contraddittoria, come riconosce per primo il nostro autore. «Ma quali che siano gli aspetti delle loro divergenze reciproche», scrive, essi hanno in comune «un rifiuto dell’idea secondo cui governare è l’imposizione a una comunità di un modello esaustivo di attività e un conseguente sospetto del governo investito di potere soverchiante, nonché un riconoscimento della contingenza di ogni progetto politico e l’inevitabile arbitrarietà della maggior parte di essi». Il grande laboratorio della «politica dello scetticismo» è l’Inghilterra, paese di libertà antiche difese, perse e poi recuperate, in un conflitto terso e costante fra gruppi e movimenti politici.
Le vittorie dello scetticismo spesso sono l’esito di battaglie di retroguardia, talora rivelano il radicamento di tradizioni e usi pre-politici. Al contrario, la storia della politica delle fede è di facile ricostruzione: è «un racconto dei progetti promossi nel portare avanti il grande progetto».
Sia la politica della fede che quella dello scetticismo hanno le proprie nemesi. Il tentativo di utilizzare il potere per realizzare il paradiso in terra porta più spesso a costruire l’inferno. Ma è il secondo stile di governo a conoscere pericoli ben più insidiosi. Evita di utilizzare il senso del pericolo, l’«emergenza» costantemente brandita per ampliare il raggio dei pubblici poteri, tende a minimizzare e per questo a scivolare nell’irrilevanza. «Non chiedendo né amore né gratitudine, ma solo rispetto, questo stile di governo riceverà indifferenza o perfino disprezzo. Mentre la fede soffre la nemesi dell’eccesso, lo scetticismo viene privato di autorità a causa della sua moderazione».
Chi legga Oakeshott con mente aperta non può che chiedersi come mai da noi sia stato tanto a lungo ignorato. Questo saggio, il cui manoscritto venne scoperto dopo la morte del maestro dai suoi discepoli e amici Timothy Fuller e Shirley Letwin, colma un vuoto. Forse la scarsa fortuna di Oakeshott si deve al suo dirsi «conservatore». Giustamente Carrino ricorda che per Oakeshott si può «essere conservatori per quanto il riguarda il governo e radicali per quanto riguarda ogni altra attività». Una cosa è la politica, altra è la vita. Proprio per questo, il governo «come l’aglio in cucina, dovrebbe essere usato con tale discrezione da notare solo la sua mancanza». Da noi l’aglio piace molto.

di Alberto Mingardi

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