Magnifica Calabria bellissima e talora desolata

del 29 Gennaio 2013

Da La Gazzetta del Sud – 29 gennaio 2013

 

Se dovessimo giudicare dalla cura per il paesaggio, dovremmo dire che i calabresi non amano abbastanza la loro terra, non riescono a percepirne l’intima bellezza (altrimenti ne diverrebbero, tutti, tutori severi ed intransigenti). Se, viceversa, ci basiamo su quanto scrivono i viaggiatori stranieri venuti quaggiù  tra il Settecento e la prima metà del Novecento, il paesaggio calabrese è fonte di inesauribile incanto. Dunque, una percezione del paesaggio – quella dei viaggiatori- assai diversa da quella degli abitanti. E dei calabresi? Cosa pensavano i viaggiatori stranieri dei calabresi, del loro carattere, delle loro condizioni sociali, della loro visione della vita? A scoprire tutto questo ci aiuta un bel libro dell’antropologo Giovanni Sole, dal titolo “La foglia di alisier, Calabria e calabresi nei diari di viaggio” (Rubbettino pp. 411. euro 18,00). 

Il libro di Sole è frutto di una ricerca minuziosa, a 360 gradi. L’autore scandaglia tutta la letteratura di viaggio in Calabria, organizzando il materiale in capitoletti tematici. Si va dall’indole degli abitanti alle caratteristiche dei paesi, dai costumi all’economia, dagli usi alle produzioni, dall’ambiente urbanizzato al paesaggio naturale. Ne vien fuori una mole di descrizioni, informazioni, giudizi, utile, secondo Sole, a decifrare, in qualche misura, Calabria e calabresi. La questione dell’attendibilità dei diari di viaggio è, in verità, assai dibattuta. Alcuni studiosi ritengono che i viaggiatori vadano presi con le pinze, perché quanto scrivono sulla Calabria è spesso frutto di invenzioni, errori, pregiudizi. E tuttavia, del viaggio al Sud aveva molto scritto Atanasio Mozzillo, riconoscendone l’originalità. E Attilio Brilli ha fatto notare come il viaggio al Sud debba ritenersi una variante avventurosa del Grand Tour, vista l’attitudine dei suoi protagonisti a viaggiare da soli, per strade malmesse, tra disaggi e pericoli, alla ricerca di luoghi “esotici” e genti dalla vita ancora primitiva. 

Ebbene, il Grand Tour ha rappresentato per l’Europa la più importante forma di “turismo” culturale dell’era moderna. Ebbe per protagonisti, inizialmente, i giovani rampolli dell’aristocrazia inglese. La tendenza era di racchiudere in un tour, appunto, le città più importanti ed i maggiori siti storici ed artistici. I viaggiatori avevano al seguito servitù, libri, attrezzatura, procedevano per strade comode ed alloggiavano comodamente. Il fenomeno raggiunse il suo apice durante il Settecento ma proseguì nell’Ottocento, estendendosi anche ad uomini, e talvolta donne, più maturi, che dai loro viaggi traevano, poi, diari da pubblicare una volta tornati in patria. La tesi di Sole è in controtendenza rispetto quella sopra ricordata. E non si fa fatica a condividerla. Egli sostiene che se i diari di viaggio non sono libri di storia, non per questo non hanno una loro importanza. I documenti d’archivio (su cui si basa la ricerca storica), scrive l’autore, sono anch’essì redatti dagli uomini e quindi, non di rado, frutto di errori. E poi la narrativa di viaggio ci rivela quantomeno l’atteggiamento culturale dei viaggiatori. Scrive Giovanni Sole: «Bisogna leggere criticamente i diari dei viaggiatori e riflettere senza pregiudizi sulla loro esperienza. L’antropologia moderna, come è noto, trae origine proprio dai resoconti di viaggio. È nel contatto diretto con gli uomini che si diventa antropologi e si acquisisce il senso dell’antropologia, è dialogando con “l’Altro” che si tenta di cogliere il significato della sua alterna”. Ma le intuizioni più originali di Sole – giustificate dai relativi richiami ai testi – sono, a mio pare, due, La prima riguarda gli uomini: una volta quaggiù, i viaggiatori sì trovavano davanti a genti si primitive, ma anche capaci della più squisita ospitalità. Nonostante povertà, catastrofi, governi inetti e rapaci. E poi il paesaggio, percepito dai viaggiatori come un Giano bifronte: da un lato il senso di desolazione destato dalle plaghe malariche della costa, dall’altro lo stupore prodotto dalla bellezza, dal senso del sublime e del pittoresco delle aree interne e delle montagne. Proprio questi dualismi, tra selvatichezza e disponibilità degli uomini e tra desolazione e bellezza del paesaggio sono metafore dell’ambivalenza, se non anche dell’ambiguità di una regione che va compresa prima ancora che giudicata.

Di Francesco Bevilacqua

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