Mafia, prodotto tipico italiano (Italia Oggi)

di Gianfranco Morra, del 7 Marzo 2016

Isaia Sales

Storia dell’Italia mafiosa

Perché le mafie hanno avuto successo

Da Italia Oggi del 5 marzo

A leggere la relazione, acuta, rigorosa e completa di Franco Roberti sullo «State of Mafia», si ha l’impressione che il Procuratore nazionale antimafia sia l’uomo giusto al posto giusto. La fotografia, più in nero che in bianco, da lui scattata nasce dal coordinamento di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso, è stata dunque scattata sul campo. Ma corrisponde alle interpretazioni che i più accorti sociologi e criminologi ne hanno dato.
Per singolare coincidenza è stata presentata mentre giunge in libreria il libro di Isaia Sales, professore al «Suor Orsola» di Napoli e già sottosegretario nel governo Prodi, Storia dell’Italia mafiosa (Rubbettino, pp. 444, euro 19,50). Opera ponderosa, frutto di anni di ricerca, non priva di ripetizioni, ma completa e (amaramente) convincente. Essa ha il merito di voltare le spalle alla lettura manichea della mafia: da un lato le sue famiglie, dall’altro la popolazione che la subisce e lo Stato che la combatte. Non è così.
La sua tesi di fondo è che le «tre sorelle», camorra, mafia, ‘ndrangheta, e l’ultima nata, la sacra corona, non sono occasioni o anomalie della nostra storia, ma componenti essenziali e perenni: «Relegare il tutto a storia criminale è un assurdo storico. Le mafie sono parte integrante della storia d’Italia, della modalità con cui è diventata nazione e si è mantenuta tale nel tempo». Una repubblica fondata sulla mafia? Per carità, non solo questo. Ma anche questo. Forse è la cosa che funziona meglio, in Italia.
Nata nel sud, con l’unità della Penisola si è diffusa tutte le regioni. I piemontesi invasero l’«arretrato» Regno delle due Sicilie, ma le mafie si sono vendicate occupando il Nord. Prima si sono impadronite della amministrazione statale, poi con l’immigrazione interna di milioni di «cafoni» hanno invaso le regioni industrializzate. Era quanto, molto prima di Leonardo Sciascia, aveva previsto Luigi Sturzo: «La mafia dalla Sicilia risalirà l’intera penisola per portarsi forse anche al di là delle Alpi. Ha i piedi in Sicilia ma afferra anche Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio».
L’emigrazione l’ha portata fuori della penisola, gli Stati Uniti e la Germania ne sono piene. Grandi forze di polizia sono impegnate a darle la caccia, ma la “famiglia” cresce e si estende. I suoi capi riescono ad evitare catture, nascosti e anche carcerati continuano a guidarla: Provenzano 43 anni di latitanza, Riina 25, Messina Denaro introvabile da 23 anni. La sua organizzazione non è un fatto burocratico, ma trova nel costume della popolazione sostegno e appoggi (non solo al Sud).
La mafia fa parte della modernizzazione. Nel mondo feudale, rigidamente gerarchico e aristocratico, non c’era. I potenti comandavano e gli altri obbedivano. Per far nascere la mafia ci voleva il salto della rivoluzione francese. Nacque all’inizio dell’Ottocento nel sud borbonico. L’unificazione dell’Italia la fece esplodere e, caduta la destra storica, divenne un elemento fondamentale dei governi della sinistra, dal «trasformista» Depretis al «mafioso» Crispi e al Giolitti, «ministro della malavita» (Salvemini). Il fascismo, soprattutto col «prefetto di ferro» Cesare Mori, riuscì a intimidirla e fermarla, ma nel secondo dopoguerra proliferò nuovamente. Simbolica la famosa foto di Robert Capa col siciliano che mostra a un soldato americano la direzione presa dai tedeschi in fuga (lo avevano già fatto con Garibaldi). Negli anni della Prima Repubblica troveranno un greppia favolosa nello Stato assistenziale, che consentirà di allargare la loro influenza. Nel ventennio della Seconda Repubblica la presenza e potenza delle mafie si sono accresciute, anche grazie a collegamenti con politici, magistrati e industriali.
Nato a Pagani (Salerno), Sales cerca di mostrare che della mafia non sarebbero responsabili i meridionali: «Con tutte le loro debolezze, sono vittime, non è nella loro terra la radice del male». Il suo libro è una biografia della nazione attraverso le mafie. Egli rifiuta la nota tesi dei sociologi nordamericani Banfield e Putnam, che la mafia troverebbe il suo humus nel «familismo amorale» del Sud. Una generosa e sentimentale preoccupazione di mostrare la complessità di un fenomeno, che ormai è italiano, ma alle sue origini è meridionale, nell’Ottocento più napoletano, più siciliano nel Novecento. Oggi la mafia è anche in Brianza, ma non è li che è nata. E se è vero che la maggioranza della popolazione meridionale non è mafiosa, non è meno che una certa «mafiosità» è diffusa nel costume, familistico e omertoso, della protezione, del patto d’onore e della raccomandazione.
La mafia non è una organizzazione di banditi da strada, ma una istituzione inserita nel tessuto economico e sociopolitico della nazione, detiene legami stretti con politici, burocrati, industriali. Essa non ruba per spendere i soldi, ma li investe in imprese economiche, italiane e straniere (si pensi al riciclo presso lo Ior). Sono «uomini d’onore», non solo temuti, ma riconosciuti e stimati dalla popolazione. La loro criminalità non è predatoria, ma collaborativa: «un potente strumento di stabilizzazione e perpetuazione degli equilibri politici». Condiziona e anche domina l’industria e la politica. In alcuni casi ha esercitato funzioni di ordine pubblico, ha sostituito la burocrazia, gli uffici di collocamento, le assicurazioni, le forze dell’ordine, ha controllato ed eliminato i violenti asociali, accelerato i lenti meccanismi degli appalti, aiutato con la compra-vendita del voto la formazione di maggioranze di governo, creato un Welfare per le famiglie dei loro carcerati.
La mafia occupa le attività più redditizie (droga, sigarette, smaltimenti dei rifiuti, sale da gioco, trasporti, edilizia e opere pubbliche, supermercati e negozi, spesso offrendo condizioni economicamente vantaggiose). Si macchia di delitti spietati, non per il gusto della violenza, ma per coordinarla e sublimarla I governanti italiani accusati di «concorso esterno» con la mafia, processati e quasi sempre assolti, spesso per scadenza di termini, sono stati davvero tanti. Come affermò, nel 2001, Pietro Lunardi, ministro del governo Berlusconi: «Con le mafie bisogna convivere».
Parole dure, che riconoscono ciò che è semplice ovvietà, il potere della mafie si è affiancato a quello dello Stato. Che insieme le combatte, con un numero elevatissimo di vittime, soprattutto magistrati, forze dell’ordine, sindacalisti e volontari, ma anche, direttamente o indirettamente, le favorisce. Questo paradossale connubio, questa diarchia di lotta e rapporti complementari ha accompagnato la nostra storia nazionale, fatta di nobili eventi, ma anche di una presenza delle mafie, ora massiccia, ora più contenuta, ma sempre più diffusa in tutto il territorio nazionale: «Cosa nostra non è anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela» (Giovanni Falcone). E non di rado anche correlata.

di Gianfranco Morra

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