Liberalismo uno e trino. La lezione di Giuseppe Bedeschi (Blog.Corriere.it)

di Dino Messina, del 9 Giugno 2015

Da Blog.Corriere.it

Il volume di Giuseppe Bedeschi (“Storia del pensiero liberale”, Rubbettino Editore, 2015, pp. 347, € 14, 00) è un contributo importante utile anche a fare il punto su due concetti chiave della politica moderna («liberalismo» e «democrazia»), letti nel loro accidentato, contradditorio percorso di reciproco avvicinamento. I due termini, occorre ricordarlo, non sono sinonimi e anzi per molto tempo ogni liberale degno di questo nome si è sforzato di preservare il suo patrimonio ideale da ogni contaminazione «democraticistica».
Così fece Benedetto Croce, nel maggio 1943, quando definì il manifesto liberal-democratico del Partito d’Azione un «imbroglio». Quel manifesto che annunziava un programma liberale ne imponeva invece «uno socialistico di quel socialismo venato di comunismo che vuole la simultaneità di una rivoluzione sociale e di una proclamazione di libertà, cosa che non potrebbe accadere se non con la dittatura, con la milizia rossa e dunque con un rinnovato fascismo». Il vero liberalismo non aveva bisogno di aggettivi per definire la sua dottrina. Il suo nome bastava a se stesso perché i liberali non potevano dividersi in conservatori o democratici, moderati o progressisti, essendo, per vocazione e per coerenza intellettuale , accomunati dalla missione comune «di stabilire e far rispettare la libertà».
Il tempo ha dimostrato che l’esortazione di Croce è rimasta inascoltata e che proprio il connubio di democrazia e liberalismo finì per dominare incontrastato in tutte le Nazioni economicamente e socialmente avanzate. Alcuni studiosi, tuttavia, si sono domandati a quale prezzo si consumò quell’unione difficile per costatare poi che il conto di quel matrimonio d’interesse, più che d’amore, fu sicuramente salato. In primo luogo, la democrazia, figlia e levatrice della nuova società di massa, sconvolse il delicato equilibrio dei poteri dello Stato liberale, mortificando le prerogative dell’esecutivo, esasperando le antinomie del regime parlamentare, interponendo il diaframma dei partiti tra le scelte dei cittadini e l’esercizio concreto della loro sovranità. Inoltre, essa operò una pletorica e confusa moltiplicazione dei diritti particolaristici e corporativi (di provincia e di regione, di etnia, di classe, di genere, di categoria) che comportò l’indebolimento della potestà statale e che si risolse a detrimento dei diritti generali dell’individuo sanciti dalla dottrina liberale.
Rispetto a questa prospettiva “esclusiva”, che fu propria di Croce, tesa a ricercare la limpieza de sangre del vero spirito liberale, Giuseppe Bedeschi preferisce invece scegliere una visuale aperta e “inclusiva”. Nel rispondere all’usata domanda «Che cosa è il liberalismo?», Bedeschi sostiene, infatti, che questo interrogativo è molto meno pedante, retorico, scontato di quanto possa apparire a prima vista. Dopotutto, infatti, lo stesso aggettivo «liberale» entra nel linguaggio politico solo con la “rivoluzione” costituzionale spagnola del 1812, per indicare il partito liberal, che difendeva le libertà politiche e civili contro il partito servil fedele al vecchio ordine assolutistico. Nella letteratura scientifica, poi, quel vocabolo appare per la prima volta con Madame de Stäel e Sismondi per indicare un nuovo orientamento etico-politico. Da qui deriva il paradosso per il quale molti considerano, come «padri fondatori» dell’ideologia liberale Locke, Montesquieu, Kant, persino Voltaire e altri illuministi, intellettuali cioè che non hanno mai conosciuto né tantomeno usato il sostantivo «liberalismo».
Sempre Bedeschi dichiara che nel pensiero politico liberale, considerato da un punto di vita morale e teoretico, troviamo ispirazioni e concettualizzazioni non solo diverse ma addirittura contrastanti, divergenti e spesso opposte tra loro. Ci sono stati pensatori liberali, latu senso, che hanno fondato le loro concezioni sul giusnaturalismo classico (Locke) e altri che hanno negato fermamente questa tesi (Hume). C’è stato un liberalismo d’ispirazione etica (Kant) e c’è stato un liberalismo d’ispirazione utilitaristica (John Stuart Mill).
Inoltre è assurdo credere il pensiero liberale, che si è sviluppato dal XVII secolo a oggi, lungo ben quattro secoli di storia delle civiltà occidentale, sia rimasto sempre identico a se stesso, come una specie di idea platonica, e che non abbia conosciuto, invece, sviluppi trasformazioni, ripensamenti, sviamenti, arricchimenti, a seconda dei diversi contesti sociali, politici, culturali nei quali ha operato, e quindi a seconda dei diversi problemi che ha affrontato e dei diversi obiettivi che ha perseguito. Per questo, insiste Bedeschi, alcuni studiosi hanno negato la legittimità stessa del concetto di liberalismo, come categoria storico-politica unitaria, e hanno preferito parlare di molti e diversi “liberalismi” che progressivamente si sono incarnati nel pensiero e nell’azione di intellettuali di cui proprio il volume di Bedeschi tratteggia con grande finezza la fisionomia: Locke, Montesquieu, Hume, Adam Smith, Kant, Constant, Humboldt, Guizot, Mill, Tocqueville, Croce, Einaudi, De Ruggiero, Kelsen, Popper, Friedrich von Hayek, Raymond Aron.
Quest’ultima posizione appare, però a Bedeschi, estrema e inaccettabile poiché anche quando si sostiene che non c’è stato un solo liberalismo e che ci si sono stati piuttosto molti liberalismi, l’uso stesso di questo sostantivo (sia pure al plurale) indica indubbiamente qualcosa di comune che rimanda a una sola identità. E tuttavia se l’uso del concetto di liberalismo è legittimo e necessario, è anche vero che, in effetti, questo concetto è in fondo il risultato di un’estrapolazione dai vari e svariati liberalismi che si sono manifestati nel corso dei secoli. Proprio perché il liberalismo non fu un unico soggetto storico (ideologico, politico, filosofico) esso è in larga misura un’astrazione, ovvero una ricostruzione formalizzata, un processo d’isolamento delle caratteristiche “tipiche” dei vari protagonisti, dei vari istituti e de vari movimenti liberali. Il che equivale a dire, ci sembra, che qualunque indagine sul liberalismo deve, certo, coglierne e metterne in rilievo le esigenze, le ispirazioni, le soluzioni in qualche modo generali. Essa non deve però mai perdere di vista le concrete realtà storiche nelle quali quelle ispirazioni e quelle soluzioni sono maturate e quindi le loro specificità che non sono mai riducibili a un pensiero unico e che invece nascono e si sviluppano sotto il segno di una concordia discors dando spesso vita a traiettorie discordanti e persino percorsi ereticali.
La stessa conclusione di Bedeschi si ritrova, non casualmente, in Fabio Grassi Orsini che nell’introduzione al secondo tomo del monumentale “Dizionario del liberalismo italiano” (Rubbettino Editore, 2015, pp. 1194, € 48,00) per giustificare l’inclusione nell’opera di personalità intellettuali lontane, estranee e a volte apparentemente o oggettivamente opposte al «canone» del liberalismo ortodosso ha scritto:
A coloro che potrebbero pensare che alcune figure da noi biografate non dovrebbero figurare in un Dizionario del liberalismo siamo in obbligo di fornire qualche spiegazione. Sarebbe stato poco liberale adottare criteri da tribunale dell’epurazione ed escludere quelle tante personalità che pur avendo avuto una formazione liberale ed anche un impegno politico in quella direzione poi aderirono al regime fascista (lo storico Gioacchino Volpe, il filosofo Giovanni Gentile, l’economista Alberto De Stefani e tanti altri). Occorre tener presente, infatti, che molti operarono tale scelta in buona fede, considerandola in continuità con il precedente impegno o perché credevano che l’esperienza storica del liberalismo come movimento politico con questo nome fosse oramai conclusa. Se avessimo seguito questo criterio, avremmo dovuto escludere anche chi ha fatto una scelta diversa ma a ben guardare non opposta, abbracciando una militanza democratica, radicale, azionista, repubblicana, socialista o comunista, pur avendo una formazione culturale o politica liberale. Per fare un esempio abbiamo incluso personalità come Mazzini, Cattaneo, Salvemini, i fratelli Rosselli, Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Ugo La Malfa e altri ancora. E, all’opposto, non si potevano scartare quelle personalità che avevano avuto inizialmente un’esperienza fascista e comunista e che poi si avvicinarono al liberalismo, nonché quelle che pur avendo fatto una scelta politica di tipo diverso si possono classificare da un punto di vista culturale “liberali”. E infine come non considerare personalità che restarono culturalmente almeno in parte liberali, a partire da Luigi Sturzo, e che ebbero un approdo politico in partiti che ammettevano la presenza nelle loro file di una importante componente liberale come la Democrazia Cristiana?
La domanda che c’interpella oggi sul liberalismo è però forse un’altra. Potrà la politica sopravvivere al processo di globalizzazione e all’accentuarsi di soluzioni tecnocratiche deputate a governarlo che si pongono contro e al di fuori delle regole tracciate dal liberalismo? Bedeschi e Grassi Orsini appaiono ragionevolmente fiduciosi che la sintesi tra liberalismo e democrazia riuscirà a vincere anche questa sfida. Confesso di non riuscire a condividere interamente il loro ottimismo. Quanto gli ordinamenti liberali e democratici, nati nell’humus dello Stato-Nazione, potranno, infatti, durare, strappati dal loro terreno di coltura, dal processo della globalizzazione? Cosa rimarrà della sovranità dei cittadini del terzo millennio, quando le decisioni cruciali, per la loro esistenza, saranno prese, come sempre più spesso accade, non dai loro parlamenti ma da organismi sovranazionali, governi stranieri, comitati d’affari senza legge né patria? Fino a quando, infine, l’affezione per gli ordinamenti politici liberali che, in questo nuovo contesto, paiono aver tradito i loro principi ispiratori, per trasformarsi in un vuoto involucro, riuscirà a non essere sommersa da una violenta reazione ispirata ai principi dell’antipolitica?
Per quello che mi riguarda, sono persuaso che la difesa dei diritti dell’uomo e del cittadino possano e debbano essere affidati a una diversa forma politica che pure non esula da precise premesse liberali. Se come ha scritto Giuseppe Galasso, in un breve ma molto penetrante saggio (Liberalismo e democrazia, Salerno Editore, 2014, pp. 100, € 8, 90), «il sistema liberal-democratico non è preclusivo rispetto all’idea del “capo”, a condizione che esso iscriva la sua azione nella forma della democrazia», questa affermazione oltre a essere teoricamente condivisibile è tale da godere del sostegno di un esempio storico che è possibile individuare nella «rivoluzione istituzionale» attuata da de Gaulle nel 1958. La Carta politica della Quinta Repubblica riuscì, infatti, ad arginare la deriva del parlamentarismo, a ridurre il potere dei partiti, ad armonizzare il carisma del leader con i principi del liberalismo, ad ancorare l’azione dei governanti a una decisa, orgogliosa, appassionata, scelta nazionale, a incanalare, infine, in rigorose procedure istituzionali quelle pulsioni populistiche che nell’Europa del primo dopoguerra avevano provocato il tracollo dei regimi liberali e democratici.

di Dino Messina

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