Liberali schiacciati dalle due Chiese (Il Sole 24 Ore)

di Massimo Teodori, del 29 Aprile 2013

Da Il Sole 24 Ore del 28 aprile 2013

La storia della Prima Repubblica di Giuseppe Bedeschi potrebbe essere considerata una “controstoria” se la si mette a confronto con il mainstream della storiografia dell’Italia repubblicana, per lo più ispirata alla sinistra comunisteggiante e al centro cattolicheggiante. Qualora si voglia utilizzare la chiave ideologica, si potrebbe dire che Bedeschi adotta un punto di vista liberaldemocratico, ma da parte mia preferisco inquadrare la “storia di una democrazia difficile” dal 1946 al 1993 nell’attenta valutazione della realtà fattuale degli eventi politico-istituzionali, fuori dalle contraffazioni partigiane che in questi decenni hanno dilagato. Il centrismo degasperiano non fu un periodo di conservazione, di stagnazione e di umiliazione delle energie vive del Paese, ma impostò e realizzò un vasto piano di riforme economiche e sociali che cambiarono aspetti fondamentali della vita italiana e posero le premesse di un forte sviluppo che sarebbe culminato nel “miracolo economico”. Come si può dimenticare la portata delle trasformazioni prodottesi in Italia con la riforma fondiaria, la Cassa per il Mezzogiorno, la rinascita dell’industria siderurgica, la scoperta del gas in Val padana, e con la riforma fiscale e il piano casa? Quella stagione fu anche segnata, grazie alle energiche decisioni del presidente De Gasperi e del ministro degli esteri Carlo Sforza, dall’adesione al Patto atlantico nonostante la durissima battaglia nel Parlamento e nel Paese dell’opposizione socialcomunista, allora alle dirette dipendenze di Mosca. Il centro-sinistra non fallì perché proponeva moderne riforme europee, ma per, la conflittualità tra le diverse anime presenti trasversalmente nella Democrazia cristiana e nel Partito socialista nel quale allora dominavano allora le velleità anticapitalistiche di Riccardo Lombardi che si proponeva con le “riforme di struttura” non già di ammodernare il Paese, secondo la cultura liberal-keynesiana che aveva dominato negli Stati Uniti di F.D.Roosevelt e nella Gran Bretagna di Lord Beveridge, ma di battere «il modello di sviluppo neo-capitalista». Analogamente il compromesso storico di Enrico Berlinguer, che dieci anni più tardi si impose a causa delle drammatiche vicende del terrorismo e della sovversione di destra e di sinistra, aveva i precedenti diretti in quella cultura politica togliattiana lontana dalla concezione della liberale democrazia dell’alternanza e riconducibile alla democrazia progressiva che si fondava sull’incontro e la collaborazione tra le grandi forze popolari, i comunisti, i socialisti e i cattolici, alieni da una visione incentrata sui diritti individuali. Del resto il processo di autonomia dall’Unione Sovietica coltivato da Berlinguer non intese mai rompere nettamente con la patria del socialismo, né aderire alla tradizione della socialdemocrazia europea come aveva fatto l’Spd tedesca a Bad Godesberg, nel quadro della democrazia occidentale. Bettino Craxi, che risuscitò l’autonomia del Partito socialista dal lungo sonno, prima frontista e poi soggetto a oscillanti tensioni velleitarie e opportunistiche, dopo i successi elettorali dei primi anni Ottanta, cadde nella rete della corruzione e del sottopotere che lo trascinò alla dissoluzione, proprio mentre la crisi del comunismo, e conseguentemente del Partito comunista italiano, arrivava al capolinea come attendevano da tempo le forze della sinistra democratica, i socialisti per primi ma anche i repubblicani, i socialdemocratici e i radicali. Mai mali della Repubblica, nata con la Resistenza e la Costituzione, erano più profondi delle vicende partitiche delle varie fasi della nuova Italia, ed erano già presenti in nuce nei Comitati di liberazione e nelle strutture corporative transitate tali e quali dal fascismo alla Repubblica. Mancava all’Italia quella cultura liberale e liberaldemocratica che nel dopoguerra aveva fornito l’architettura dellegrandi nazioni europee: la democrazia era bloccata per la presenza di un Partito comunista più a Est che a sinistra, i vizi partitocratrici e demagogici erano intrecciati con una cultura statalista e populista che aveva il suo fondamento anche nella radicata antropologia cattolica dominante nel Paese fin verso l’ultimo decennio del Novecento.

Di Massimo Teodori

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