La parabola del potere mite (Il Quotidiano della Calabria)

del 8 Aprile 2013

Da Il Quotidiano della Calabria del 7 aprile 2013 

Dopo “L’ultima battaglia” e la sconcertante fine della Balena bianca (ed. Rubbettino, 2012), la più riuscita metafora letteraria sulla Democrazia cristiana, Gerardo Bianco ripercorre in continuità logica e storiografica “La parabola dell’Ulivo” (ed. Rubbettino, 2013) con un fiume di testimonianze e aneddoti rilasciati in una lunga intervista a Nicola Guiso, abilissimo nel porre domande anche imbarazzanti ma sincere e significative. Il filo conduttore del saggio, che sembra scritto a più mani per la sua vivacità, denuncia l’impreparazione teorica e pratica nel rimediare con poco più di una semplice ed ennesima figura botanica, ambigua come la preesistente Quercia, a uno stallo di disorientamento della società italiana dopo la fine della Guerra fredda e la caduta del Muro di Berlino.

Bianco, protagonista tormentato dalla penuria di revisionismo, sembra capire, come quello di Bad Godesberg che nel 1959 segnò la nascita della socialdemocrazia tedesca in una società aperta, affonda il bisturi in quella “amalgama non riuscita”, come venne definita da D’Alema che con Prodi ne fu all’inizio uno dei più pesanti sostenitori. Bianco ammette che fu la stessa D.C. con la sua natura social-liberale a impedire la nascita di una socialdemocrazia italiana, senza però spingersi fino alla contrapposizione metafisica e non politica del popolarismo col materialismo storico, della dottrina sociale della Chiesa o economia sociale di mercato con la lotta di classe e il compromesso “storico” teorizzato da Gramsci per l’Italia in termini di egemonia e passaggi graduali. Bianco, che pecca d’intimismo e perdonismo in certe risposte, avrebbe preferito sostituire il Muro con un trattino per distinguere ancora l’identità tra e dei partiti storici e non semplicemente quella delle singole leadership e loro meccanismi surrogatori ad usum delphini. Sembra di rileggere le pagine profetiche di Maritain sul tramonto irreversibile del Principe di Machiavelli e delle lotte di fazioni personali che si elidono reciprocamente anche se non fa difetto allo stesso Bianco un patriottismo di partito che lo rende riluttante alle vulgate, ancorché giudiziarie, del “doppio stato” intriso di mafia, dell’ antiparlamentarismo che strumentalizza gli inquisiti (88 deputati nel 1992) per “buttare via il bambino con l’acqua sporca” e poi arrivare al presidenzialismo dei partiti personali o aziendali. Aggiunge la massima considerazione del ruolo apparentemente minore svolto intra-moenia da personalità di grande caratura etica e culturale, come Gabriele De Rosa, o l’amarezza di Martinazzoli davanti a risultati elettorali che riducevano la rappresentanza parlamentare del cattolicesimo politico al 10%, ampliavano la secolarizzazione televisiva e individualistica e compromettevano “l’alternativa di se stessi”

(Moro) per cui, al di là delle sparate della Bindi sull’esodo forzoso degl’indagati questi vennero sostituiti, come in Calabria, da assessori regionali di “cassetta” che recavano a Roma l’impronta territoriale degli homines novi. Bianco segue l’esempio di Martinazzoli, di non ricandidarsi, ma lo farà ne11994 a Strasburgo, e segue disciplinatamente l’ elezione di Buttiglione a segretario del PPI nella speranza che riesca a travasarvi l’animus pugnandi di Comunione e liberazione. In realtà il mondo cattolico del nordest si andava ormai orientando verso la Lega, una nuova raccolta di Lazzari e Sanfedisti, che vennero “utilizzati” inizialmente contro il governo Berlusconi da un’effimera alleanza tra D’Alema, Buttiglione e Bossi, che rappresentava solo l’inizio di una “transizione infinita” (De Rosa).

Nel 1995, Franco Marini revocava la sua fiducia a Buttiglione che inseguiva Berlusconi per recuperare i voti antisistema sottratti al centro e dopo inutili tentativi di ritornare all’unità, Bianco veniva nominato reggente fino al Congresso del PPI. Alla unanimità interna però corrisponde il deserto extra-moenia dove “i buoi sono scappati” e le gerarchie ecclesiastiche si sono disimpegnate, inorridite. Le elezioni regionali del 1995 vanno male specie al nord e Prodi sale sul pullman della successiva campagna elettorale. Bianco rivendica orgogliosamente il sostegno del partito popolare da lui assicurato al governo Dini che consente una riforma pensionistica di spessore europeo e l’avvicinamento dell’Italia all’euro che sarà varato nel 2000, mentre, lamenta Bianco, Prodi aveva fretta e andava avanti con i suoi Comitati, sempre più lontani dal PPI. A fine 1995, Dini si dimette e D’Alema cerca apertamente con Berlusconi una larga intesa per riformare la seconda parte della Costituzione ma più immediatamente per introdurre una legge elettorale che penalizza i residui centristi e tenta il bipolarismo possibile. La legittima reazione centrista con un tentativo di governo Maccanico fallisce mentre Veltroni prospetta il disegno di un partito “democratico” all’americana. Bianco ricorda e annota la frase di De Rosa: “Per mediare troppo abbiamo rischiato di perdere l’anima”. Perché “l’anima dell’Ulivo è popolare” e i “Popolari per Prodi” non significano adesione al presidenzialismo ma calcolato altruismo, dopo la perdita di Buttiglione, Casini, Mastella e poi D’ Antoni con Dini e Andreotti. “Purtroppo il modello della coalizione fu abbandonato per inseguire la suggestione del grande partito unitario dell’Ulivo” e poi “le cose cambiarono quando nell’Ulivo prese piede la tesi che fosse necessario portare Rifondazione a essere parte della maggioranza” (p.140) anche verso l’euro per accettare un’imprescindibile, severa, Finanziaria collegabile solo al precedente politico – ricorda Bianco – del movimento dei cento parlamentari d.c che nel 1979 lo avevano portato a presidente dei deputati D. c. non solo in autonomia da piazza del Gesù, fino al punto da svolgere le primarie fra deputati aspiranti- sottosegretari al di fuori del mitico Manuale Cencelli, che però Zaccagnini fu costretto a praticare; ma anche e appunto per europeizzare il quadro politico italiano dopo l’adesione al Serpente monetario europeo, di cui io stesso fui portavoce del Gruppo D.c. dell’Aula di Montecitorio verso la fine del- 1’82. Com’è noto, quel voto sullo SME determinò, su pressione della Cgil di Lama, il ritiro della fiducia del Pci al governo e le elezioni anticipate del 1983. Bianco svela in proposito un retroscena sconcertante quando ricorda l’aspro rimprovero subito da Romiti contro la moneta unica europea che avrebbe fatto fallire le fabbriche italiane, mentre i quotidiani della catena confindustriale sostenevano il contrario nelle loro pagine (p.144). E mi sovviene l’avvertimento di Guido Carli, durante una pausa di un incontro riservato all’Hotel La Pace di Montecatini, di non sottovalutare l’ineludibile quanto sottostimata connessione conflittuale tra nuovo euro e vecchio dollaro… 

IL NUOVISMO….

In un anno e nove mesi di Reggenza e Segreteria del Ppi, Bianco cercò di elaborare un nuovo pensiero del “cristianesimo politico europeo” che andasse oltre il popolarismo Sturziano e il cattolicesimo liberal-sociale da Rosmini a Maritain e Capograssi, perché nel confronto con le residue ideologie illuministiche e razionalistiche, che avevano condotto alla crisi della politica ideale, ritornasse il primato del pensiero e dell’etica sull’economicismo e la tecnica. Il testo della sua Relazione da segretario uscente al Congresso del Ppi del 9 gennaio 1997, opportunamente pubblicato in appendice, conferma e illustra questa imprescindibilità. Non a caso, a Montesilvano, venne ripresa la tradizione dei convegni Morotei di Perugia e San Pellegrino con un dibattito su “identità e progetto” dei Popolari, che, a parte qualche scaramuccia Demitiana, nonostante la “desistenza” elettorale accordatagli in Irpinia, affrontò il rapporto tra Ppi e Comitati di Prodi che continuava a rifiutarne l’integrazione in nome di un “nuovismo” più vicino alle attese del mondo imprenditoriale e sindacale, condite di una religiosità popolare affermatasi nei territori che si rivolgevano all’egoismo della Lega Nord. Prodi entrò in conflitto anche con D’Alema che non inseguiva “il grande Ulivo” ma la ricomposizione dei 46 soggetti politici che,dal 1997, ricevettero il finanziamento pubblico come rimedio all’asta che diversamente si sarebbe profilata tra i padroni dei poteri forti, sostanzialmente protezionisti anti-euro, che giocavano la carta pericolosa dell’antipolitica, con echi anche all’interno del Ppi che andavano da Andreatta a Franco Marini che chiedevano una reazione competitiva. Bianco lamenta che durante la sua direzione politica non riuscì mai ad avere collaborazioni di riguardo, compresa quella delle gerarchie ecclesiastiche e delle forze c .d. “collaterali”, come Cisl e Coldiretti, tranne le Acli di Bianchi, mentre continuava la vulgata delle debolezza costituzionale e non di quella dei partiti come causa del deficit decisionistico dei vari Governi. A metà ’98, Berlusconi staccò la spina della Bicamerale per la riforma della Costituzione dopo che, a febbraio, era fallito il tentativo Dalemiano della scelta socialdemocratica e subentrato il ripiegamento in DS (democratici di sinistra) che comunque si differenziava dall’Ulivo dei partiti di Prodi e Parisi e parimenti dalle stranezze di Cossiga (UDR). La sconfitta finale, il 9 ottobre, di Prodi per un solo voto alla Camera e soprattutto quelli determinanti di Rifondazione e Cossiga, lasciò pensare tutti, anche se Bianco smentisce, a un asse MariniD’Alema – poi successore di Prodi a palazzo Chigi – per evitare subito le elezioni ed eleggere il nuovo Capo dello Stato. Intanto, cominciava la marcia di avvicinamento di Berlusconi e Fini al Partito popolare europeo che aveva interesse a superare numericamente i socialisti come primo partito a Strasburgo nonostante Athena, la corrente più filo-popolare, si opponesse a Berlusconi, Fini e ai conservatori. Prodi andava avanti con il movimentismo de “i democratici”, i maggiorenti sindaci del tempo (Rutelli, Cacciari, Illy, Orlando, Enzo Bianco, ecc.) e, alle elezioni europee del 1999, ottenne quasi il doppio dei voti popolari caduti al 4,2%. Neanche Bianco si salvò nella circoscrizione sud. Il nuovo segretario Castagnetti virava verso Prodi e Bianco rinunciava a dirigere Il Popolo. Ancora Veltroni nella Relazione di Segretario al Congresso DS del 2000 respingeva il dissolvimento nell’Ulivo e quando per riscossa i popolari alla Regione Campania proposero la presidenza di Gerardo Bianco, stranamente, o meglio come già per la vicepresidenza del Consiglio nel Governo D’Alema, le cose s’ingarbugliarono a vantaggio di Bassolino…

Bianco sorvola con eleganza sui retroscena che ognuno può solo immaginare sull’accordo del candidato comunista con De Mita in Campania. Anche Martinazzoli viene fatto fuori in Lombardia e giunge a Roma “la Margherita” trentina di Dellai mentre Andreotti con D’Antoni e un altro irpino, Zecchino, dà vita a “Democrazia europea” che sfiorerà il minimo de14% e si fermerà. Conclude Bianco: “I movimenti politici diventati come il Lego, da comporre e scomporre… l’Ulivo con la scomparsa dell’isola Popolare perdeva le sue radici, e così la grande speranza de11995-96 malinconicamente è tramontata!”. Sembrerebbe un pezzo importante di storia intra-moenia, vista da un angolo ormai divenuto acuto, ma non è così grazie ai ragguardevoli riferimenti alla politica estera, ai nuovi modelli altrui come quello di Tony Blair, alle degenerazioni genetiche dei partiti italiani, ai nuovi equilibri europei. Dunque, non una cronaca settoriale di commilitoni postdemocristiani ma uno sguardo universalistico sulla debolezza del potere discreto, mite, che soccombe per scarso vigore non certo teorico al populismo altisonante ma provinciale, senza prospettive di salvezza sincronica. E la speranza che il futuro abbia ancora “un cuore antico”, che alla “parabola dell’Ulivo” non succeda anche quella della democrazia partecipativa e rappresentativa nel nostro Paese. Un Paese governabile solo a partire dal Centro? Non lo dice Bianco ma la migliore storia politica d’Italia e la cronaca di questi giorni…

Di Pietro Rende

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