“La commistione più utile dei Totem” (Il Quotidiano del Sud)

di Edvige Vitaliano, del 10 Giugno 2016

Da Il Quotidiano del Sud del 10 giugno

«Il 23 dicembre 1984, giorno delle sue nozze, l’insegnante di piano Cristina Petraglia non si presenta in chiesa. La sua Diane viene rinvenuta in mezzo al lago. Di lei, però, non c’è traccia. La colpevolezza copre chiunque, come un manto di neve, e non risparmia nemmeno la vittima: bella, forse troppo, per la sua piccola comunità. Lo psicologo inviato dalla Procura investiga tra i sentimenti di chi è coinvolto. Si imbatte in Fiore, che fin da piccolo fa il gioco del silenzio; in Cristiano, un falegname che fa l’acrobata tra i cornicioni di antichi palazzi; in Melania, che respinge la parte di perdente e lotta per averne un’altra. La vera indagine diventa un viaggio nel senso di bellezza e di sconfitta di una piccola, feroce umanità. Faccia a faccia con una bellezza troppo invadente per meritare una sola verità…». È la sinossi di “Cristina d’ingiusta bellezza”, l’esordio da romanzo edito Rubettino di Nicola Cosentino, classe nel 1991, nato a Praia a Mare (Cs). Laureato in Relazioni Internazionali all’Università della Calabria con una tesi sul teatro greco nella resistenza culturale, Cosentino giornalista pubblicista, ha collaborato per anni col Quotidiano del Sud. Dal 2014 cura la pagina culturale del blog Venti, di cui è cofondatore. Autore di sceneggiature, ha realizzato diversi cortometraggi. Da tre anni è direttore artistico del Festival di cinema indipendente Brevi d’Autore. Ha vissuto a Londra, lavorando in una casa editrice. Sempre a Londra ha scritto “Cristina d’ingiusta bellezza”, il suo primo romanzo. Attualmente vive a Roma.
Com’è nato “Cristina d’ingiusta ‘bellezza”?
«Sono venuti prima i personaggi. Fiore, uno dei protagonisti, esiste da almeno sei anni. E nato in treno nell’inverno del 2010. Ascoltavo i Beach Boys. Metto le canzoni in loop, chi mi conosce lo sa, e dopo una serie da cinque di replay ossessivi, Fiore era già un ragazzo formato: sentimentale, rosso di capelli e deciso a stare zitto. Solo che, una volta pronto, non sapevo cosa farmene. In un racconto stava troppo stretto, così l’ho messo in attesa. Intanto scrivevo altre cose. Per anni mi ha fatto da compagnia invisibile, come Paul Bettany in “A Beautiful Mind”, insistendo sulla sua legittimità. La storia gli si è sviluppata intorno. L’ho levigata per un tempo lunghissimo. Poi, in circa sei mesi, nel 2014, a Londra, ho terminato una prima stesura. Quindi il romanzo è nato due volte, per citare Pontiggia»
Come definirebbe questo lavoro?
«Ho scoperto che, su Amazon e in molte librerie, è catalogato come giallo/noir. Io credo sia un romanzo che corteggia i generi ma non ne abbraccia nessuno, sfilandosi tra l’altro in maniera rischiosa: tra i personaggi principali ci sono un muto e due assenti, e quello che sta di più sulla scena, Allemandi, arriva a pagina 123, ottanta dalla fine. Quindi direi che “Cristina” è un romanzo sulle assenze e sui silenzi, su quello che significano e su come sono accolti. Oltre a essere, soprattutto, una storia d’amore».
Per il personaggio di Cristina si è ispirato ad una persona reale?
«No, chiaramente. Cristina è abbastanza irreale, tutta letteraria. Deve tanto ai personaggi femminili di alcuni classici contro il senso morale, da Hester Prynne a Lolita fino alle principesse Disney. Condivide col gallo-lucertola la quota di realismo magico che c’è nel romanzo: è un personaggio enorme, se paragonato a chi le sta intorno. Quindi no, non somiglia a nessuno. Forse solo a Jennifer Connelly, almeno fisicamente, ma non mi sono mai interrogato troppo in proposito».
La scelta temporale in cui colloca la storia è un corollario quanto necessario?
«Sì, per ragioni narrative, senz’altro. Ma anche perché gli anni Ottanta hanno instillato, nella coscienza rieducata e appena libera dell’Italia che usciva dai 70, una certa pornografia della notizia, popolarizzandola. Andando a memoria, prima di allora, l’enfasi era un copyright fascista. Poi siamo passati da “Ardisco ad ogni impresa” a Cronaca Vera. Questo è un altro tema fondamentale, in “Cristina”. La versione delle cose, il modo di raccontarle».
C’è una cosa che le piace molto del libro e qualcosa che oggi scriverebbe in maniera diversa o cambierebbe?
«Mi piace Cristiano perché mi ricorda Oreste, nelle “Coefore” e nelle “Mosche”. Non so perché. Ovviamente non è merito mio, è venuto fuori esattamente così, pronto all’uso, e mi sta simpatico da allora. Sul fronte critico, non lo so. C’è un passaggio che ho scritto e riscritto più del resto, e con cui non mi sento a mio agio completamente. È una lettera d’amore molto accorata, naturalmente enfatica, e con l’enfasi ho qualche problema anche nella vita. Agli altri piace, ma dopo l’ultimo giro di bozze non l’ho voluta rileggere».
Il rapporto con la scrittura?
«Una cosa che somiglia allo studio, ma passa per il piacere. Mi diverte sempre, e quando non mi diverte mi disciplina. Spero duri il più possibile. Leo Ortolani, che è un grande del nostro tempo, paragona la stesura delle sue storie a una pesca selezionatissima di immagini che galleggiano. E un affresco efficace della scrittura di fiction».
Lo scrittore di riferimento?
«Quando ci penso, da solo, mi dico: due Sandro (Petraglia, a cui Cristina deve il cognome, e Veronesi), e Stefano Rulli. Ma non è vero, un breve elenco non basta mai. Poi ci sono quelli a cui vuoi bene da lettore, che ti hanno formato, e quelli a cui tutti vorremmo somigliare, con poche speranze. Oggi, in Italia, un modello virtuosissimo è Giorgio Vasta. Quando ho cominciato a scrivere “Cristina’ non lo conoscevo. Leggevo, come adesso, McEwan, Irving e Houellebecq. Molto Garcia Marquez, tutto Pennac. La commistione è più utile dei totem, secondo me» .
Ha già in cantiere un altro libro?
«Sto lavorando a una cosa che mi chiederà un po’ di tempo. Sono alle prime stesure. Devo solo evitare che mi rubino i fogli e il pc e che la mia ragazza perda l’unica copia che ho stampato, che ovviamente sta da lei, al sicuro».
Ma che cos’è la bellezza?
«Faccio una piccola premessa e ci arrivo. Dunque, sono uno che lancia monete. Per decidere che fare. Pure per scegliere il ristorante. E in questi casi si dice sempre che, quando si lancia una moneta, non importa che faccia esca, ma cosa speri tu: una delle due ti rende più felice, e lo sai da prima di lanciare. Il caso non c’entra. Ecco, credo che la bellezza sia più o meno questo: la risposta che ti stai augurando mentre la moneta ha smesso di vorticare e tocca il palmo».

di Edvige Vitaliano

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