L’aspra Calabria di Bocca

del 12 Luglio 2011

di Eugenio Scalfari
Tra le mille inchieste, interviste, cronache di guerra e di dolorosa pace, ricordi di vita partigiana che Giorgio Bocca ha pubblicato in libri e giornali, dall’«Europeo» al «Giorno» e poi su «Repubblica» dove venne dal primo giorno della fondazione e dove tuttora lavora con la mente lucida e la mano veloce a novant’anni sonati, l’inchiesta intitolata Aspra Calabria occupa un posto particolare.

Quando la lessi tanti anni fa ne rimasi stupefatto, ma ora che l’ho riletta a distanza d’una ventina d’anni ne sono orgoglioso per lui e per il giornale che la pubblicò. Sono calabrese d’origine, quella terra la conosco per averci vissuto un anno e mezzo nel 1944-’45 e per i racconti di mio nonno, di mio padre, delle mie zie. Ma Giorgio, che in queste pagine si definisce un «allobrogo» ne sa molto più di me. C’è stato per tre settimane, ma l’aveva già percorsa in lungo e in largo altre tre o quattro volte e poi ci ritornò ancora. Ha incontrato le persone più diverse: studiosi, storici, magistrati, prefetti, questori, poliziotti, carabinieri, mafiosi, contadini. Ha esplorato territori, montagne, oliveti, orti, forre.

Aveva in testa racconti di banditi, liturgie di iniziazione alle «’ndrine», violenze, soprusi, corruzione, ma anche gli antichi insediamenti della Magna Grecia, Sibari, Locri, Ulisse e il mare azzurro di Scilla e Cariddi, le coste ioniche, Pitagora, il ratto di Proserpina, gli aranceti, le spiagge a perdita d’occhio. E il cielo. Un cielo blu da Croce del Sud, e invece era quello dell’Orsa Maggiore e delle costellazioni di questa parte del pianeta, le Pleiadi, Orione, Andromeda.

È incredibile la scrittura di Giorgio Bocca. Per la professione che faccio da sessant’anni ho letto migliaia di articoli e le firme di chi li scriveva sono state tra le più pregiate d’Italia. I confronti sarebbero impropri, ognuno aveva la sua cifra, le sue competenze, i suoi saperi. Ognuno la sua visione della vita e del paese. Ognuno aveva il suo stile. Ma quello di Bocca è stato unico. Pensava, vedeva, raccontava, si indignava, s’innamorava dei personaggi, li faceva muovere, li faceva vivere sulla pagina. Poi li lasciava d’improvviso per descrivere le strade dell’Aspromonte, poi ritornava ai mafiosi, alle donne matriarcali, ai pastori; poi li lasciava di nuovo perché quel cielo blu sopra di lui gli ispirava il ricordo di Omero-Ulisse che naviga tra l’isola di Circe e quella di Calipso e poi ancora a parlare della cosca di Mommo Piromalli e del procuratore Cordova e infine dei bronzi di Riace apollinei nelle loro posture guerriere.

L’inizio di questo racconto è sbalorditivo. È in Calabria e deve scrivere dei rapiti in Aspromonte, deve raccontare per i lettori del nostro giornale che cosa è l’Aspromonte, i suoi borghi arrampicati, le tane dove sono imprigionati per mesi e anni i rapiti, i torrenti che d’inverno diventano fiumi. E invece comincia così: «Nel 1968 a Saigon, Vietnam, alloggiavo all’hotel Metropole in una stanza liberty color avorio, solo il geco incollato sul muro mi ricordava che ero nel lontano sudest asiatico. Nella sala da pranzo camerieri in giacca bianca servivano «tournedos» alla Rossini e volendo lo chef ci faceva le «crepes» alla fiamma. Poi uscivo e a duecento metri passavo lungo la caserma dei rangers vietnamiti con le porte e le finestre murate perché non si vedessero e non si sentissero i prigionieri vietcong chiusi nelle gabbie di bambù, corpi martoriati dalle torture sotto i pigiama neri».

Ma che cosa scrive? È matto? È andato a raccontare l’Aspromonte e descrive l’hotel Metropole e le gabbie dei vietcong.

Ah, non conoscete Giorgio Bocca. Va a capo e scrive: «Oggi, 1992, sono in un hotel della Locride, Calabria …e posso vedere di qui l’Aspromonte…» e comincia: «In questi boschi c’è un uomo – il giovane Celadon – che da due anni sta in una tana alta mezzo metro e quando lo fanno uscire deve star lì, sulla bocca della tana, legato a una gamba con una catena come un maiale».

E da lettore sei ormai avvinto da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo, ti sembra di leggere un romanzo con uomini d’avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, tutto fantasia, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece…

Invece stai leggendo il reportage d’un giornalista che si è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro e poi risalirà di nuovo sulla montagna e intanto fruga nella sua memoria, rivede Saigon e una guerra spaventosa, ma quella guerra è finita e Saigon è ora una città moderna e ricca, ma qui questa guerra primitiva non finisce mai. Ieri leggevate Bocca, oggi leggete Saviano. Mafia, ’ndrangheta e camorra sono sempre lì da un secolo e mezzo. Solo che oggi, da Platì e dagli altri borghi-rifugio, gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kossovo, in Montenegro, a Mosca.

Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. Il volume di affari supera i 150 miliardi l’anno.

Ma i capi vivono ancora nei tuguri sulle montagne o sono al carcere duro e continuano a mandare ordini, a comunicare, a governare il commercio insieme a tutte le mafie del mondo.

 

Lupi feroci o iene o faine?

Nell’aspra Calabria raccontata da Bocca queste tipologie zoologiche ci sono tutte, ma ci sono anche i servitori dello Stato. Pochi però e spesso accantonati, trasferiti o addirittura abbandonati alle vendette perché troppo ingombranti.

Bocca non è tenero con lo Stato corroso dalla partitocrazia e soprattutto non è tenero con i partiti. In realtà è deluso dell’Italia e da questo punto di vista è un antitaliano. Vorrebbe un’Italia che non c’è mai stata nella realtà, filtrata attraverso la guerra partigiana della quale è ormai uno dei pochissimi testimoni viventi.

I lupi feroci vivono nell’Aspromonte ma non sono più molti: il commercio della droga e il riciclaggio dei profitti ha trasformato i lupi in iene o serpenti o volpi, frequentano i partiti di governo e le banche, hanno amici potenti a Zurigo, alle Isole Vergini e nel Liechtenstein; i figli li mandano all’Università. La zoologia è cambiata ma i cuori sono sempre di tenebra, almeno fino alla terza generazione, poi si vedrà.

Nel 1992, quando Bocca scrive Aspra Calabria, siamo ancora agli inizi di questa trasformazione. Dopo la ricognizione tra le tane della montagna, scende in pianura, Taurianova, Gioia Tauro, Scilla, Palmi, Reggio. Ed è in pianura che la mafia calabrese comincia a trasformarsi annusando i primi rivoli di droga anche se gli appalti e il pizzo sono ancora determinanti e il sequestro di persone fa ancora parte dell’arcaismo banditesco.

I personaggi che il giornalista-scrittore descrive sono questi: un senatore comunista-liberale di settant’anni, ormai deluso dalla politica, che scrive poesie ed ama la sua terra con disperazione; un avvocato cui la ’ndrangheta ha rapito e ucciso un fratello ma che, con uno sforzo estremo di comprensione, riesce a capire la mentalità degli assassini scaricandone in parte la responsabilità su un tessuto sociale degradato; Francesco Macrì detto Ciccio Mazzetta, signore e padrone incontrastabile di Taurianova; Mommo Piromalli, boss del clan intitolato a suo nome, padrone assoluto della piana di Gioia Tauro; il procuratore della Repubblica Agostino Cordova che con la mafia ha ingaggiato una sua lotta personale; la famiglia Pesce-Pisano che governa Rosarno e impone alla città la propria legge a suon di schioppettate e lupara.

«Torno a Gioia Tauro per la quinta volta e mi aspetto sempre il peggio. La prima volta fu molti anni fa quando il centrosinistra gonfiava le sue vele e le nostre illusioni su un’Italia e un Mezzogiorno riformati. Ricordo un pranzo elettorale dove c’erano Giacomo Mancini ed Enrico Mattei, l’uomo della nuova frontiera. Allora ero il giornalista di punta del «Giorno», il suo giornale, così mi avvicinai al tavolo per salutarlo. … “Questo è uno che spara” disse lui presentandomi a Mancini e rievocando il mio passato partigiano. Sì, sparai molto allora ma con fucili che ai Macrì e ai Piromalli non avrebbero fatto nemmeno il solletico. Mancini voleva fare a Gioia Tauro il quinto centro siderurgico, ma come abbia potuto pensare, un calabrese profondo conoscitore della sua terra come lui, di poter paracadutare una grande azienda nella plaga più mafiosa della regione sembra oggi uno dei misteri dolorosi del profondo Sud».

E descrive quanto sta vedendo con i suoi occhi in quella sua sesta trasferta calabrese, il centro siderurgico mai nato, la costruzione del porto dei container già in gran parte ultimata, oliveti per centinaia di ettari abbattuti, file di camion per sterrare i campi e far posto al cemento, banchine già pronte e traffico marittimo sotto la taglia dei Piromalli. «A loro, potentissimi, i miliardi; alla manovalanza dell’Aspromonte le briciole».

Bocca racconta. Quella dei Piromalli che rapirono Paul Getty Jr. e mandarono al nonno un orecchio perché si decidesse a pagare i miliardi di riscatto, è una vera e propria epopea del male. E conclude con queste parole: «Il porto è costato novemila miliardi. È usato solo la notte, dai contrabbandieri».

Da allora è passato un ventennio, Giorgio ha compiuto novant’anni, io vado per gli ottantasette, Giacomo Mancini ed Enrico Mattei sono morti, ma i Piromalli sono alla terza generazione e la ’ndrangheta è più forte e più ricca che mai. Rapimenti non se ne fanno più. Adesso i nipoti di Mommo parlano le lingue, sono seguiti da uno stuolo di avvocati e discutono di fidi e di prestiti con le banche e le fiduciarie dei Caraibi, del Liechtenstein, di Tangeri e di Miami.

Caro Giorgio, ti sei chiesto come sia stato possibile, allora, sperare che il male oscuro del Sud sarebbe stato vinto dando a quelle regioni e a quei giovani industrie moderne e lavoro. L’hai chiamato mistero doloroso. E quando ci incontriamo (ormai troppo di rado) nella tua casa milanese, ancora il mistero doloroso occupa i nostri discorsi. Vent’anni fa stava per arrivare un’altra tempesta, un altro Tsunami sulla democrazia di questo paese. Arrivò appena due anni dopo quella tua inchiesta sulla Calabria dei primi Novanta, sembrò un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell’Utri, Previti, il partito dell’amore, il contratto con gli italiani, le televisioni, le paillette e le escort.

Ma i vari Macrì e Piromalli sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca. «Money money money», un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria «meno male che Silvio c’è». Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà gaudioso. Che altro potremmo fare se non coltivare questa speranza?

                                                                                               

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