Il Sud, le colpe e il dualismo (Corriere del Mezzogiorno)

di Giuseppe Galasso, del 18 Febbraio 2015

AA.VV.

Alle origini del dualismo italiano

Regno di Sicilia e Italia Centro-Settentrionale dagli Altavilla agli Angiò (100-1350)

a cura di Giuseppe Galasso

Dal Corriere del Mezzogiorno del 15 febbraio

A essere sinceri, non si capisce la tanta passione e fatica che si spende per stabilire se il Mezzogiorno sia colpevole o incolpevole del suo diverso grado di sviluppo rispetto ad altre parti d’Italia e d’Europa. Nulla vieta, invero, che possa essere entrambe le cose, cioè insieme colpevole e incolpevole, e che, però, l’incolpevolezza non annulli affatto la colpa. Se questo – tutto sommato – semplice criterio si facesse un po’ strada, si risparmierebbero forse molte energie dialettiche e si avrebbe qualche idea più chiara. Se poi si capisse anche che il concetto morale e giuridico di «colpa» (così come il termine filosofico e scientifico di «teorema») è molto poco adatto a facilitare la comprensione delle cose sul piano storico e politico, e che, anzi, è un serio ostacolo a una tale comprensione, il guadagno sarebbe ancora maggiore, e ci si metterebbe sulla via giusta per pervenire a una auspicabile maggiore e migliore possibilità di orientamento nelle non facili questioni che sono proprie sia della storia che della politica.
Ben più della questione delle «colpe», conta in Italia la questione del dualismo della struttura economica nazionale. Un dualismo di lontana ascendenza storica e di lunga durata, come ho avuto modo di illustrare in altra sede.
Mi riferisco, in particolare, al volume, da me curato per il Centro di studi normanni e svevi di Ariano Irpino, Alle origini del dualismo italiano, ed. Rubbettino, di cui Giovanni Vitolo ha già parlato in questo giornale. Un dualismo, si aggiunga, che si è poi consolidato (e anche ampliato) dopo l’unificazione politica del paese nel 1861.
«Colpa» del Sud pigro e passivo? «Colpa» del Nord rapinatore e sfruttatore? «Colpa» di entrambi, Nord e Sud? Lo veda chi ha tanta facilità di discutere e stabilire le «colpe» dei grandi processi storici. Qui vorremmo soltanto fermarci un attimo sul dualismo come fenomeno di ripartizione territoriale dello sviluppo, essendo assolutamente pacifico che non vi è fenomeno di sviluppo che non produca differenziazioni territoriali più o meno notevoli (l’anno scorso ne trattò Carmen Vita, sulle orme di Augusto Graziani, nel volume Il dualismo economico in Italia. La teoria e il dibattito. 1950-1970, ed. Franco Angeli, dove si afferma, oltre quelle di uno «sviluppo duale» e di uno «sviluppo dualistico patologico», l’idea di uno «sviluppo dualistico fisiologico»).
La geografia di tali differenziazioni è la più varia, in funzione di fattori altrettanto vari. In Italia si è risolta in una bipartizione del territorio nazionale, che dà alla «questione meridionale» un carattere discriminatorio che il dualismo altrove non produce.
Altrove il dualismo è stato risolto? Anche qui, lo creda chi vuole. Per conto nostro stentiamo a crederlo. Si stenta a crederlo perfino nel caso – ritenuto esemplare per i suoi tempi e per i suoi risultati, ma oggi, per la verità, meno sbandierato di qualche tempo fa – della «riunificazione» economica tedesca dopo quella politica del 1990.
Nel caso italiano non è, però, soltanto la netta bipartizione territoriale a sollevare problemi. Ancora di più ne solleva la tendenziale staticità nel rapporto tra gli indicatori economici e sociali di ciascuna delle due aree del paese. Nel complesso, entrambe le aree sono andate avanti nei centocinquanta anni dell’unità, ma non in maniera tale che nel comune progresso la loro disparità risultasse superata o sensibilmente attenuata. E, ciò, malgrado che in determinati periodi una tendenza apprezzabile alla riduzione del dislivello si sia indubbiamente manifestata.
Così è stato – come ormai pare che nessuno più voglia negare – con la politica meridionalistica portata avanti dopo il 1945. Le critiche più vistose ad alcuni punti di tale politica (come quella alla grande industrializzazione allora avviata e alle sue deprecate «cattedrali nel deserto», o quella alla supposta mancanza degli attesi effetti dell’indotto di tale politica) si dimostrano inconsistenti (lo si vede ora anche nel saggio di Adriano Giannola, Sud d’Italia. Una risorsa per la ripresa, ed. Salerno). Pure, gli effetti maturati dalla politica meridionalistica intorno al 1960-65 svanirono rapidamente.
Quel che ancora non si è, però, visto bene è che lo svanire di tali effetti fu legato – oltre che a deficienze politiche e tecniche nel concetto e nella gestione di quella linea meridionalistica – anche a limiti complessivi dello sviluppo italiano. Uno sviluppo caratterizzato da un forte squilibrio fra l’aumento dell’innovazione e della produttività in alcuni settori e l’aumento di vari parassitismi (in particolare nel pubblico impiego) e da un aumento dei salari superiore rispetto a quello della produttività. Ne dovevano nascere, come ne nacquero, inflazione, aumento del debito pubblico, fiscalismo esoso e non equo, evasione fiscale diffusa, esodo dei capitali. Con l’aumento delle rendite fondiarie e finanziarie e con estese remunerazioni di lavori improduttivo o insufficientemente produttivo, l’accumulazione dei capitali era destinata a ridursi.
Gli studiosi e alcuni politici si accorsero tempestivamente di questa drammatica contraddittorietà. Si ricordi, ad esempio, tra i secondi, Ugo La Malia; e, tra i primi, Federico Caffè, del quale Marcello Messori ha ripubblicato e validamente commentato alcuni lucidi saggi nel volume Lotta alle rendite. Teorie e propositi di politica economica (ed.Carrabba, Lanciano).
Politicamente si cercò di avvalersi dell’incremento delle rendite non legate alla produttività per sostenere la domanda con l’aumento dei consumi. Non si poteva, però, andare avanti troppo a lungo così. Con la crisi politica dell’inizio degli anni ’90 vi fu la fatale esplosione di tante contraddizioni. Da allora non si è più riusciti a riprendere in Italia il cammino percorso nel quarto di secolo tra il 1945 e il 1970. La progrediente crisi globale degli ultimi anni ci ha fatto poi toccare il fondo, e una volta di più abbiamo sperimentato quanto e come ciò che si fa o si chiede o si tenta di fare per il Mezzogiorno sia legato a quel che si fa per l’Italia.
Il Mezzogiorno partecipò largamente all’aumento delle rendite e all’espansione del lavoro improduttivo o insufficientemente produttivo, ma vide largamente e sempre più naufragare la politica meridionalistica nelle medesime secche sulle quali si arenò lo sviluppo italiano. Una lezione da ricordare bene anche oggi.

di Giuseppe Galasso

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