Il premier e i partiti ladri di democrazia. Una vecchia storia… (Il Giornale)

di Dino Cofrancesco, del 29 Luglio 2014

Da Il Giornale del 29 luglio

Un raffinato cultore di politologia storica, Francesco Battegazzone, nel saggio Il Parlamento nella formazione degli Stati europei (Giuffré, 2007), scrive che in Inghilterra «non è la maggioranza parlamentare a scegliere il premier e il suo cabinet: fin dagli anni ’30 del XIXsecolo sono invece i premier – investe di candidati alla carica – a chiedere all’elettorato la maggioranza necessaria per governare. È vero che solo con la formazione di partiti organizzati e disciplinati l’investitura elettorale dei ministeri conseguirà la piena consacrazione – e che di partiti siffatti esistono scarsissime tracce nei primi parlamenti vittoriani; ma in quest’epoca tale mancanza viene surrogata dalla leadership dei più influenti capi delle fazioni, e, in ogni caso, la minaccia dello scioglimento costituisce un efficace deterrente verso le condotte “irresponsabili” dei deputati».
Nel loro libro, Partitocrazia, del 1911 (ora edito da Rubbettino), Hilaire Belloc e Cecil E. Chesterton mettono sotto accusa il sistema politico britannico proprio per quella caratteristica che per la scienza politica comparata rende il sistema governabile: il potere del premier e la riduzione del Parlamento a una cruciale funzione di sostegno o di opposizione al governo in carica. Gli autori, non inquadrabili nel filone del conservatorismo alla Burke bensì in quella cultura cattolica inglese fortemente critica del capitalismo e della plutocrazia, fanno rilevare che «in teoria la Costituzione dice che i ministri sono nominati dalla Corona. Ma tutti sanno che questo non risponde più alla realtà dei fatti. Molti direbbero che oggi i ministri sono nominati dai rappresentanti al Parlamento. Ma anche questo non è vero. La verità è che i ministri si nominano da soli. Essi sono parte di un organismo che si auto elegge e che riempie i posti vacanti secondo un criterio di cooptazione». Tutto il meccanismo si basa sulla prerogativa di sciogliere le Camere se la maggioranza è contraria alla proposta di legge di un qualsiasi ministro. «È lo strumento principale di ricatto usato per costringere un medio e onesto rappresentante politico a conformarsi».
Il giudizio complessivo sulla patria del liberalismo moderno è drastico: se la democrazia è il governo della volontà del popolo le leggi che rispecchiano la volontà del popolo sono approvate e quelle che non la rispecchiano vengono respinte. Laddove le leggi non hanno «alcun legame con il desiderio del popolo», come avviene «in Inghilterra, non c’ è democrazia». Una plutocrazia coesa da legami familiari, una «omogenea massa di ricchi proprietari terrieri e commercianti» ha in mano tutto il potere politico ed economico ma, soprattutto, svuota dall’interno il sistema dei partiti, rendendone le divisioni sulle grandi questioni nazionali pure rappresentazioni sceniche. Ciò che i due avversari “apparenti” – i conservatori e i liberali – «tentano di preservare, mettendosi sempre d’ accordo segretamente, non è certo la sicurezza dello Stato e nemmeno la conservazione del dibattito, ma le condizioni grazie alle quali loro e la loro cricca di seguaci riescono a ottenere grandi compensi e potere dentro e fuori dal Paese. (…) Le cose che rifiutano e vietano di discutere sono proprio quelle che formano la base segreta della loro posizione: la vendita di titoli nobiliari, il potere legislativo, la connessione fra antagonisti solo di nome, la riforma delle procedure alla Camera dei Comuni, l’ampliamento delle opportunità per i privati, l’abbassamento dei salari, l’instaurazione del controllo di comitati pubblici, e così via».
Non manca nel libro una anticipazione dell’aula sorda e grigia: se un «attentato anarchico» provasse a «far saltare in aria» l’ «edificio squallido, dove si respira un’aria malsana e il cui arredamento è decisamente orribile», l’esplosione verrebbe accolta «come una sana interruzione delle futilità e monotonia di questo sciocco e vuoto girotondo». Certo gli autori criticano il sistema in nome di un ideale impegnativo di democrazia che dia agli elettori il potere effettivo di controllare e sanzionare il comportamento degli eletti. Il punto rilevante, però, non è questo ma l’aver individuato, alla base della pseudodemocrazia inglese, un establishment più o meno occulto che stabilisce l’ordine del giorno del dibattito pubblico prescindendo dai bisogni del popolo. Non è la concezione realistica della democrazia che si ritrova in Gaetano Mosca, in Joseph A. Schumpeter, in Raymond Aron ma una critica radicale del sistema – che, tra l’altro, si tradurrà in un modello economico alternativo al capitalismo, il «distributismo».
Se gli autori svelano i punti deboli della prima democrazia liberale del pianeta- di qui la grande attenzione a essi riservata dalla cultura fascista e da quella cattolica – non ne spiegano i punti di forza. L’ establishment è un elemento stabile del Regno Unito: ma c’è establishment ed establishment.
Leggendo Belloc e Chesterton diventa incomprensibile quanto scrive, ne La ricchezza e la povertà delle nazioni, David S. Landes: «Non è una coincidenza che la prima nazione industriale» sia quella che si sia più avvicinata alle «virtù che hanno promosso il progresso economico e materiale» e rappresentato «una decisa rottura rispetto a precedenti organizzazioni politiche e sociali».

di Dino Cofrancesco

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