Il ’68? Nessun impegno a sinistra. Servì solo a psicanalizzare i registi (Libero Quotidiano)

di Giorgio Carbone, del 18 Dicembre 2014

Alberto Tovaglieri

La dirompente illusione

Il cinema italiano e il Sessantotto 1965-1980

Da Libero Quotidiano del 18 dicembre

Riusciremo un giorno a vedere un film sul ’68? Campa cavallo. Anzi campa fino a un certo punto, dal momento che chi era ragazzo allora oggi è una persona anziana e al lumicino della propria attività creativa. E non vive di ricordi. Semmai di rimozione dei ricordi. Il’68, dicono (è vero, è vero), cambiò l’Italia, anzi l’Occidente. Ma i cineasti d’Occidente non furono pronti a raccontarlo. La nostra intellighenzia fu presa in contropiede dalla contestazione generale, poi tentò maldestramente di appropriarsene, salvo in seguito prendere le distanze, quando la lotta globale al sistema figliò la progenie assassina del terrorismo rosso e nero. A metà dei ’70 fu decretato il silenzio cinema. I registi leftist erano riluttanti a filmare i «compagni che sbagliavano». E per i produttori gli anni di piombo servirono solo come tela di fondo per i poliziotteschi all’italiana.
Perciò può sembrare deviante (anzi, lo è) il titolo La dirompente illusione. Il cinema e il Sessantotto. 1965-1980 per il bel libro di Alberto Tovaglieri (Rubbettino, pp. 152, euro 22), che in realtà non spiega la contestazione generale, quanto la presa in contropiede di quattro registi di gran nome che diedero il loro meglio tra il 1965 e il 1980, ma che degli anni fatidici non capirono un tubo. Il «grande sogno» (come lo chiamò Michele Placido in un film deboluccio, ma che rimane l’unica cronaca del periodo) servì più che altro ai quattro grandi come pretesto, come spinta per buttare sullo schermo i loro personali fantasmi. Intendiamoci, li buttarono dannatamente bene. Il libro è appassionante in certi punti perché mostra come i nostri prodi furono capaci di scolpire i loro antieroi con l’estro di un Balzac e la precisione di un chirurgo. Solo che il ’68 non c’è.
La rivolta scolastica, con la negazione delle figure paterne (genitori e professori) servì unicamente a Marco Bellocchio l’occasione per mettere ne I pugni in tasca i fantasmi familiari che ancor oggi non l’hanno abbandonato. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto fu per anni interpretato come un ritratto al vetriolo del commissario Calabresi… E questo perché uscì pochi mesi dopo la strage di Piazza Fontana. Ma la sceneggiatura era stata scritta più di un anno prima, quando Petri non sapeva nemmeno chi fosse Calabresi, ma odiava i piedipiatti nostrani perché a più a riprese, da giovane attivista di sinistra, era stato da loro menato impunemente. Impunemente? Calabresi venne ucciso un anno dopo Indagine. Il sistema non l’aveva protetto. Come non protesse le decine di poliziotti che ci lasciarono la pelle nel decennio seguente.
Petri fu brillantissimo anche nell’altro suo film vivisezionato nel libro di Tovaglieri, La classe operaia va in paradiso, ancor oggi ritenuto il più bel ritratto di lavoratore di fabbrica prodotto dal cinema. Non casualmente. Petri, figlio di operai, sapeva raccontare la classe come nessun altro regista di sinistra si sognava. Ma anche qui il regista non dimostrò la vista lunga. Il finale fa intuire una possibile pace sociale che nella realtà italiana non avvenne. Di li a poco sarebbero arrivati gli autunni caldi che avrebbero tramutato il paradiso in quasi inferno.
Marco Ferreri è messo da Tovaglieri nel mazzo perché inserisce nella Cagna la sua paura nei confronti del femminismo montante…E i fratelli Taviani? Prendono pretesto dagli intrecci tra terrorismo rosso e nero per raccontarci in Allonsanfan il Risorgimento italiano come epoca di falsi eroi.
Indagine, La classe operaia, La cagna, I pugni in tasca e Allonsanfan. Incidentalmente tra i film migliori del periodo. Non incidentalmente, la dimostrazione dell’incapacità dei nostri prodi di rappresentare la realtà, quando è ingrata, quando non è “rivoluzionaria”. Dei cinque, solo uno ha chiesto venia e con 30 anni di ritardo. Marco Bellocchio, nel 2003, rievocando il caso Moro, rivalutala figura paterna (raffigurata dallo statista prima divenire ucciso). Il “padre” è addirittura santificato, una figura angelica che solo un branco di “figli” fanatici e assassini può pensare di sopprimere. Anche dopo sei lustri il regista di Piacenza continua a non rappresentare la realtà, ma solo il sogno di un ex rivoluzionario arrivato in età paterna.

di Giorgio Carbone

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