“Gente d’Aspromonte”, letteratura oltre la ‘ndrangheta (Linkiesta)

di ALBERTO ALFREDO TRISTANO, del 5 Agosto 2013

Da Linkiesta del 05 agosto 2013

«Gli africoti odiano il mare. Un mare quasi sull’uscio di casa, blu carico, con bordi di celeste madonna e striature vinose». Un gran mare, dove però non c’è nessuno mai, nemmeno in piena estate. Oggi come allora, 1979, quando Corrado Stajano scrisse il memorabile libro-reportage Africo. Africo, Calabria. Punto di caduta marino del gran mistero selvoso-criminale d’Aspromonte, nomea di ‘ndrangheta, per tutti qui, quelli perbene, i malacarne, i grigi e pure i “finti”, come chiamano certe facce pulite che nascondono arsenali in cantina per conto terzi. Un teatro di sangue, di silenzi, di tragedie e di tragediatori. Ma anche di troppa retorica ripetuta senza verifica: naturalmente non si può negare che in queste zone spesso la legge sbanda e il crimine comanda, che qui lavora il cervello di un imponente traffico internazionale di armi e droga, che la politica è inquinata a livelli assai più complessi e meno locali di quanto sembri, ma sta anche maturando una riflessione nuova sull’identità del luogo, forse un diverso orgoglio, certamente uno sguardo inedito, uno sguardo indigeno che conquista attenzione oltre i limiti di queste province. È il caso di Gioacchino Criaco, africoto puro, che si sta affermando con i suoi romanzi usciti in Italia per Rubbettino e ora pubblicati in Francia dalla casa editrice specializzata in letteratura noir, Métailié.
A partire dalla prima opera, la più intensa, certamente la più centrata sul racconto di questa fetta di Calabria, Anime nere: il racconto della carriera criminale a base di droga sequestri e omicidi, tra la Calabria e Milano, di tre ragazzi che vogliono sfuggire a un destino da sottomessi. Dopo l’estate partiranno le riprese della traduzione cinematografica, prodotta tra gli altri da Rai Cinema e firmata dal regista Francesco Munzi. Criaco si divide ormai da vent’anni tra Africo e Milano: un po’ perché, dice, «l’Italia per i figli dei boschi o è la Locride o è Milano, il resto non conta granché», un po’ perché sotto la Madonnina ha fatto l’avvocato.
Poi nel 2008 in venti giorni ha steso il primo romanzo, inseguito segretamente per tutta una vita, e da allora addio codici, non si è fermato: Zefira e American Taste, e a breve l’antologia Bel Paese, pubblicata in prima battuta direttamente oltralpe, che raccoglie racconti anche di Giancarlo De Cataldo, Andrea Camilleri e Francesco De Filippo. Perché abbia deciso di scrivere della Calabria, Criaco lo spiega in termini quasi psicologici: «Perché sostanzialmente volevo provare a dire a un ragazzo di qua che non è figlio di nessuno, che non è fallito in partenza, che se vuole può fare la vita che fanno gli altri e conquistare le stesse cose. Con molte persone che hanno purtroppo preso la cattiva strada, ho condiviso lo spazio e la geografia e posso dire che ci sono parecchie carriere criminali iniziate per sfuggire alla tenaglia tra Stato corrotto e anti-Stato della ‘ndrangheta, che è senza dubbio il nemico peggiore perché è il traditore di famiglia della nostra terra. In quelle parabole c’è un elemento di ribellione, che purtroppo è finito nella criminalità perché non ha trovato sbocchi nel sistema legale cui pure poteva dare tanto. Non mi ha mai convinto la posizione di Corrado Alvaro, pur riconoscendo la sua grandezza, che costruiva sulla gente d’Aspromonte un racconto tranquillizzante da epopea dei vinti. Anche oggi si ricorre a stilemi, come quello secondo cui ‘ndrangheta sarebbe più forte di Cosa Nostra, che avrebbe una potenza militare maggiore. È un circuito mediatico che alimenta se stesso e le carriere di chi gli sta intorno. E se vuoi impegnarti nella sfera pubblica devi attenerti a questo racconto altrimenti sei un colluso, stai nella zona grigia. Io ho fatto politica per diversi anni, nel Pci, giovane tesserato fino alla Bolognina, ma la lezione che ho tratto è che se sei uno di Africo, uno di San Luca, uno di Platì non puoi, anzi non devi fare politica, perché ci sarà sempre qualcuno che ti impiccherà a un parente, a un vecchio amico, a un’antica frequentazione, danneggiando te e chi sta con te. I miei libri nascono dalla reazione, tutta privata, a questo disimpegno pubblico che io e altri subiamo. E dall’insofferenza per un ruolo affidato a noialtri, almeno dai moti di Reggio Calabria in poi, sul versante della mafia come dei servizi segreti come del terrorismo politico: fare il lavoro sporco, essere usati negli affari più torbidi. Sì, per molti versi noi calabresi siamo i palestinesi d’Europa». Criaco, come molti altri suoi compaesani, non si riconosce nell’anagrafe perché appartiene al paese che non c’è più. In senso tecnico: l’Africo vecchia, vecchia di secoli, piegata sotto le alluvioni della Storia, è un luogo abbandonato in mezzo all’Aspromonte, in linea d’aria una ventina di chilometri da Africo nuova, in realtà distano un’ora e mezza di macchina. L’una ha cento chilometri quadrati di selve fitte fitte, abbandonate definitivamente al principio degli anni Settanta per via della precarietà idrogeologica; l’altra è stretta in poco più d’un chilometro quadrato, concesso ai tempi dal vicino Comune di Bianco per farci le case nuove. Gli occhi sullo Ionio ma il cuore in montagna: ecco forse perché gli africoti odiano il mare.
Pasquale C. fa il forestale, categoria che non gode di buona stampa. «Per chi non sta con i clan, lo Stato pensa che basti un po’ di assistenzialismo, senza pensare troppo a quelli che invece vorrebbero una terra libera, che conceda finalmente qualche opportunità di sviluppo». Con altri colleghi e gente di Africo ha messo in piedi un’associazione: hanno risistemato un capanno dove ospitano gruppi di lavoro di giovani ambientalisti, studenti delle accademie d’arte. In testa hanno il recupero del percorso degli splendidi monasteri basiliani che si stendono lungo l’Aspromonte, attraverso Africo, Bova, Stilo. Criaco quand’è in Calabria sale quassù ad Africo vecchia, «dove ci sono le case che stiamo pian piano recuperando di tutta la mia famiglia: caprai per generazioni, generazioni di Africo». Nel silenzio irreale, ritmato soltanto da suoni di natura, il giro ha tappe fisse: la chiesa centrale diroccata e bellissima, le dimore in pietra dai muri crepati, la vecchia scuola elementare che ha la forma classica di un tempio greco, voluta da Umberto Zanotti Bianco: «Un uomo del Nord, tra i pochi che cercarono di capire i posti di quaggiù. Se solo ci fosse un minimo di quella sua sensibilità per comprendere e uscire dal discorso unico e unificato della ‘ndrangheta… Come se non fosse vero che pure se domani mattina la ‘ndrangheta scomparisse, saremmo ugualmente sommersi di guai. E parlo soprattutto di ambiente, tra progetti a venire e disastri già in atto. Il rigassificatore a Gioia Tauro, la centrale a carbone a Saline, le acque avvelenate del bacino Alaco che serve 400mila persone, le discariche colabrodo disseminate in tutta la Regione e senza alcun piano di recupero e bonifica. Che dice al riguardo lo Stato, quello Stato che qui amministra la giustizia e le istituzioni attraverso le medesime famiglie da centocinquant’anni, magari le stesse famiglie che c’erano coi Borbone? Forse dovremmo rivedere il concetto di legalità almeno a queste latitudini». A questa realtà, nel corso di lunghe frequentazioni per scrivere e preparare il film, si è approcciato il regista Francesco Munzi, che alla Calabria e a questa parte di Locride attribuisce i connotati dell'”enigma”. Spiega: «Questa terra e questa società sono abituate a ‘guardarsi’, non si fidano. È forse un sentimento da colonizzati. La stessa omertà mi sembra un atteggiamento oltre che di paura, di sfiducia, verso tutti».
Munzi nei suoi film ha lavorato sul tema della difficoltà di integrazione tra italiani e comunità straniere, «e in qualche modo c’è un filo tra Anime nere e le precedenti Saimir e Il resto della notte: è l’assenza di integrazione, come se anche qui ci fosse un’estraneità impossibile da superare». Il film, come il romanzo «che mi ha colpito per la sua sincerità, la visceralità di approccio a questi luoghi», è ambientato tra la Locride e la Lombardia, con Milano e la provincia di Pavia, la sua campagna, le sue zone agricole, «certo così diverse dai paesaggi del Sud, però ugualmente essenziali per questi personaggi, perché loro della terra, del contatto fisico e del rapporto con essa, proprio non possono fare a meno». Ai tempi del Grand Tour gli italiani erano visti come un popolo di romantici briganti, come spiega in un libro del Mulino lo studioso Attilio Brilli. È quel brigantaggio senza più alcun romanticismo che forse sopravvive nel racconto da fuori sull’estremo tacco dello Stivale. Racconto generato, il che non giustifica stereotipie, dall’anima sfuggente di questa regione “pianeta sconosciuto” (secondo Fortunato Seminara) o “regione labirinto” nella prosa dell’ormai classico Viaggio in Italia di Guido Piovene: «Viaggiare in Calabria significa compiere un gran numero di andirivieni, come se si seguisse il capriccioso tracciato di un labirinto… La Calabria è allo stesso tempo un mosaico e un puzzle». Quanto più l’immagine stringe sull’Aspromonte, l’impressione diventa più acuta e il colore più denso. Scavalcando il dorso montuoso verso il Tirreno, si passa per Santa Cristina d’Aspromonte e si finisce a Palmi. I due poli entro cui si svolge la biografia di Mimmo Gangemi, scrittore di molti libri di successo, editorialista per La Stampa, anche lui prestato al racconto audiovisivo: da un suo libro, Il giudice meschino (Einaudi) la Rai sta girando una miniserie tv in due puntate per la rete ammiraglia, con protagonista Luca Zingaretti nel suo primo ruolo giudiziario post-Montalbano. Gangemi, tra le volute di un toscano, fa strada nel suo studio tecnico: «Un tempo la scrittura era uno svago dall’ingegneria; oggi è il contrario, faccio l’ingegnere per staccare dai miei libri». Deformazione professionale forse, dà qualche numero: «Bastano poche cifre per raccontare le bufale su questa terra. La prima, che venne fuori qualche tempo fa: il 27 per cento della popolazione è collegata con la ‘ndrangheta. Ma si può!? Poi qualcuno si accorse della svista su una virgola mancante, non 27 ma 2,7 per cento, la segnalò, ma la percentuale fu ritenuta intoccabile e immodificabile, rigorosamente citata nelle cerimonie d’apertura dell’anno giudiziario l’anno scorso e quest’anno. Ne vuole un’altra? La ‘ndrangheta realizza guadagni per 48 miliardi di euro l’anno. Una cifra a caso: c’è uno studio della Bocconi che indica poco più di 3 miliardi. Intendiamoci non sto facendo né voglio fare il difensore delle bestie sanguinarie delle ‘ndrine, ma nemmeno il racconto si può capovolgere in una teoria di idiozie.
Quante se ne dicono… Un posto tetro, palco di brutture e di ogni nefandezza: non è così. Qualche tempo venivano fin qui certi ‘turisti del brivido’, se ne andavano in giro sulla statale 112 Bagnara-Bovalino magari sperando di incontrare qualche latitante, anzi c’era il mito delle vacche sacre della criminalità che erano pertanto intoccabili… Per carità, qualche brivido ce l’avranno avuto, ma perché la strada è pericolosissima, con tratti sempre in frana, interruzioni infinite, sepolta d’inverno dalla nebbia, altro che latitanti…». Gangemi ha appena pubblicato il seguito del Giudice meschino, che si intitola Il patto del giudice, e sta scrivendo la terza avventura del magistrato Alberto Lenzi. «In questo nuovo capitolo la ‘ndrangheta c’entra di striscio, parlerò di tre episodi che sembrano omicidi seriali ma in realtà sono una vendetta. In realtà io c’ho in mente già chiaro un romanzo che è una saga familiare incentrata sulla criminalità, da come si è trasformata dall’Onorata società ai clan di oggi. Ma non lo voglio scrivere, anche se ci ragiono da dieci anni, mi sembrerebbe come di speculare sui problemi di oggi… Le racconto una storia. Avevo vent’anni e con altri amici poco fuori il nostro paese, Santa Cristina, incontrammo un sequestrato, Galloro, che era appena stato liberato dai carcerieri. Lo portammo in caserma, e lì però accadde quel che non credevo: fui interrogato io, per tre volte, affinché confermassi la loro versione ufficiale, cioè che la liberazione era avvenuta dopo un conflitto a fuoco. Cosa che non feci, ribadendo sempre il mio racconto. In vicende come questa, e ce ne state tante, troppe, lo Stato ha perso la propria credibilità, perché suoi uomini, per promozioni, cittadinanze onorarie, interessi di vario tipo, imbrogliavano esattamente come i fuorilegge. Per carità, capisco la paura e la difficoltà, sono stato dirigente pubblico nella sanità per molti anni e mi sono passati sotto il naso appalti per miliardi, e so che opporsi costa fatica e molta destrezza perché il sì deve diventre nì e infine no senza troppi traumi. Anch’io ho avvertito la rabbia di vivere in questa forma di libertà vigilata. Ma non bisogna cedere. Né alla paura né al luogo comune né alla furbizia. Perché un punto sia chiaro: non c’è una collusione di massa. Forse è solo Roma che è, che vuol essere troppo lontana».

DI ALBERTO ALFREDO TRISTANO

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