Franzoni, la rivincita dell’ex abate rosso (Il Venerdì di Repubblica)

del 29 Dicembre 2014

Da Il Venerdì di Repubblica del 27 dicembre

Giovanni Franzoni, come la devo chiamare: padre, abate, don, dom (titolo d’onore attribuito ai benedettini), oppure signor Franzoni?

«Io, veramente, mi chiamo Mario, il mio nome di battesimo. Da monaco, invece, sono Giovanni Battista. E, interiormente, mi sento ancora monaco. Dunque uno che ha unificato i propri desideri, la propria presenza, di fronte a Dio. E continuo a celebrare. Anche se oggi sono sposato. Il don, grazie, può andare bene».

Don Giovanni Franzoni, o meglio Dom, dominus, così come lo chiamavano in Italia nel periodo caldo a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta per le sue dichiarazioni e l’atteggiamento progressista, non è scomparso nel nulla. L’abate della Basilica di San Paolo fuori le mura, a Roma, uno degli ultimi Padri conciliari ancora in vita del Vaticano II, l’allievo prediletto di Paolo VI, che però entrò nell’occhio del ciclone per il suo sì alla legge sul divorzio, all’aborto, la condanna alla guerra in Vietnam, le posizioni marxiste che lo portarono ad essere dimesso dallo stato clericale, è tutt’altro che uscito di scena. Classe 1928, oggi è quasi cieco, cammina a piccoli passi lenti. È un vecchio alto, dall’aria imponente, la mente intatta e, a giudicare dagli impegni, in piena attività. Dom Franzoni guida tuttora la Comunità cristiana di base sulla via Ostiense, dove lo incontriamo, scrive i suoi articoli su Confronti, la rivista da lui fondata nel 1973, progetta conferenze sulle donne in Iraq, e ha appena pubblicato un libro (Autobiografia di un cattolico marginale, edito da Rubbettino) che sta presentando in tutta Italia. Ed è sposato, ormai da tempo, con Yukiko Ueno, una giornalista giapponese, atea.
E allora, dom Franzoni, nell’introduzione del suo libro si legge: «Alcune intuizioni di quarant’anni fa, come l’auspicio di una Chiesa povera e libera da “interessi mondani, riecheggiano negli atti e nelle parole del nuovo Papa Francesco». A distanza di così tanto tempo, oggi, si sente compreso?
«Ho scritto a papa Francesco. Lui però non mi ha risposto. Eppure, lo fa con tutti… Lasciandomi il dubbio se avesse davvero ricevuto la mia lettera. Gli ho mandato anche la mia autobiografia, con una dedica. Se poi qualcuno l’ha bloccata, questo non posso saperlo».

Eppure le sue posizioni di allora, dom Franzoni, sono quelle espresse oggi dal Vaticano. Come giudica Jorge Mario Bergoglio?
«Noto che un certo imbarazzo nei miei confronti c’è ancora. Però devo riconoscere che certe affermazioni sono interessanti. Sulle questioni sociali, da buon argentino, Bergoglio si è barricato sulle posizioni di Hélder Camara, l’arcivescovo brasiliano che fu uno dei precursori della Teologia della liberazione. Di recente il Papa ha detto: Tutti sostengono che sono comunista, ma l’amore per i poveri è il centro del Vangelo. È la dottrina sociale della Chiesa. Beh, difatti, bisogna intendersi sul significato della parola comunista, oggi…».

Lei fu cacciato dalla Chiesa proprio per la sua iscrizione al Pci. Erano gli anni in cui sui muri di Milano si leggeva: «Franzoni = falce e martello». Anni in cui Il Tempo titolava: «L’Abate rosso si è messo da parte». Pentito?
«Guardi, io alle elezioni del 1972 feci una distinzione un po’ fine che forse non fu pienamente compresa. Infatti nella cosiddetta Nuova sinistra ero più vicino ad altri organismi, come Lotta Continua, Avanguardia Operaia, il gruppo de il manifesto, i marxisti-leninisti, ma non il Pci. A convincermi per il Pci però fu un dialogo con Franco Basaglia».

Lo psichiatra che introdusse la legge 180 e la chiusura dei manicomi in Italia. Che cosa le disse?
«Questo: “Io sono d’accordo con te che il Pci è una palla e sta a rimorchio della Dc. Però non sarei riuscito a chiudere i manicomi a Gorizia se non ci fosse stata una giunta di sinistra”».

E lei si iscrisse.
«Aderii al Pci. E la cosa fu interpretata come un’iscrizione, senza cogliere la distinzione sottile. Mi chiedo: sono stato incauto? Quella cosa mi valse la riduzione allo stato laicale. Poi, quando alla fine nel 1988 presi la tessera davvero, tre mesi dopo sciolsero il partito…».

Paolo VI non gliela perdonò.
«Ero notevolmente nella sua manica. Alla Basilica di San Paolo feci la preghiera del Concilio Vaticano per gli osservatori, e lui mi affidò il discorso sull’Africa. Gli organizzavo un po’ le cose. Aveva molta fiducia in me».

Che cosa accadde allora?
«Accadde che piano piano, per come si sono evolute le cose, con gli attacchi provenienti da destra, Montini finì per disamorarsi di me: prima accettò le dimissioni cui mi avevano costretto, poi la mia riduzione allo stato laicale».

Però lei nel suo libro scrive che è stato il Papa più progressista del Novecento.
«Paolo VI è stato un Pontefice antitemporalista. Quando era Sostituto, Pio XII non lo fece Segretario di Stato, ma lo mandò a Milano come arcivescovo. Montini infatti si considerava un progressista. Però sottrasse alla materia di discussione del Concilio Vaticano II due argomenti: la contraccezione e il celibato ecclesiastico. E questo creò malumore. Infine, accolse le istanze dei conservatori».

Uno schema che rischia di ripetersi, a cinquant’anni di distanza?
«In Curia c’è visibilmente un conflitto in corso. Perché non è che i conservatori siano a riposo: basta vedere il libro scritto da cinque cardinali del loro schieramento prima del Sinodo dei vescovi di ottobre, e gli obici schierati dal Prefetto per la Congregazione della dottrina della fede, Gerhard Ludwig Muller. Così, papa Francesco è sotto lo stress e la pressione».

Alla luce della Chiesa di oggi lei ha qualcosa da rimproverarsi?
«Io non posso chiedere niente. Però credo che una riabilitazione sarebbe stata giusta. Ma sono in buona compagnia, basti pensare ai casi del teologo tedesco Bernhard Haring, che fu perito al Concilio Vaticano II e membro della commissione che preparò la costituzione Gaudium et spes, e fu poi ridotto al silenzio. O dello stesso Hans Kung, che a ragione sostiene che la Chiesa non è infallibile».

Lei è fra questi?
«Fra gli ultimi di questi. Perché ci sono don Lorenzo Milani, o don Primo Mazzolari. Che io abbia dato fastidio non c’è dubbio: ho pure testimoniato contro la beatificazione di Karol Wojtyla».

Il vero giro di vite fu sotto il pontificato di Giovanni Paolo II?
«Pensiamo solo all’isolamento del vescovo salvadoregno Oscar Romero, prima di essere assassinato. O allo scandalo del Banco Ambrosiano, dove il Papa fece partire monsignor Paul Marcinkus sottraendolo agli interrogatori dei magistrati. O ai teologi che pensavano liberamente, come Leonardo Boff, dal Papa sempre osteggiato. E a tutte queste cose ne aggiungerei un’altra: la questione pedofilia. Il Pontefice polacco si rese complice nel nascondere i preti implicati, come il cardinale Hans Hermann Groèr, divenuto arcivescovo di Vienna, e poi dimessosi per le accuse di molestie sessuali».

Dom Franzoni, lei oggi è un prete sposato. È una contraddizione?
«Yukiko venne qui a festeggiare i miei 60 anni portando tre rose. Mi intervistò. Nacque l’amore».

Ma la vera risposta a questa domanda è a pagina 141 dell’autobiografia, dove Franzoni scrive: «Mi mancavano i sentimenti intimi, le relazioni – compresi i conflitti – tra temperamenti diversi. Ho scoperto la sessualità come arricchimento totale e non come deprivazione di energie che potrebbero essere dedicate al Signore. Certo ora, vista la mia età, direi che il nostro, più che amor eroticus, sia prevalentemente amor amicitiae».

Intervista di Marco Ansaldo

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