Fanfani, nei suoi diari uno specchio dell’Italia (Il Mattino)

di FRANCESCO PAOLO CASAVOLA, del 17 Luglio 2013

Da Il Mattino del 17/07/2013

Sono stati presentati giovedi scorso in Senato i primi quattro volumi dei Diari Fanfani (1943-1963) editi da Rubettino. Quando si tratta di un uomo politico, quale fu Amintore Fanfani, di cui si possono elencare, come per le magistrature degli imperatori romani, sei presidenze del Consiglio, cinque del Senato, e tanti ministeri, il dibattito storiografico non può non risuonare anche della polemica politica. La disponibilità di documenti diaristici consente al lettore di evitare questa dipendenza. I materiali di pugno di Fanfani si dividono in due tipologie: i quaderni svizzeri, narrativi del periodo di espatrio del 1943-45, e i diari che appuntano laconicamente le intense giornate pubbliche, dal 1949, e quando questa impresa editoriale sarà conclusa, fino al 1990, per ben quarantuno anni. Una vita che fa corpo con l’intera storia della prima Repubblica. E cui sorprende l’attualità della esperienza politica di Fanfani, malgrado la distanza nel tempo.
Egli fu autore della definizione della Repubblica «fondata sul lavoro», nell’articolo 1 della Costituzione. Uomo di govemo, Fanfani non poteva tollerare la separazione del principio dal fatto. 1110 gennaio 1950, egli ministro del Lavoro, a De Gasperi, che contro due milioni di disoccupati opponeva le ragioni del pareggio del bilancio, replicava con drammatica durezza: «È ora di finirla con questa mistificazione. Ci volete far passare per desiderosi di deficit. Vi diciamo: i disoccupati bisogna farli lavorare, per pareggiare il bilancio aumentatele entrate». Egli fu il protagonista di uno dei grandi fatti italiani di politica sociale, come il Piano Case, che durò quattordici armi e dette 350 mila abitazioni a 2 milioni e 200 mila persone. E forse anche per questo non godè simpatie a destra tra gli alleati di governo della Democrazia Cristiana, e fu temuto dalla opposizione socialcomunista come il più incisivo antagonista sul terreno delle riforme a favore dei ceti sociali più deboli, che rappresentavano allora, all’uscita dalla guerra, la parte maggiore del nostro popolo. Da tanto disamore per il protagonista politico e per il personaggio umano, Fanfani può essere ricordato come il leader simbolo della intera vicenda della Democrazia Cristiana, partito per eccellenza «italiano», nell’età della guerra fredda cuneo di maggioranza tra schieramenti filosovietici e filoamericani, la cui capacità di tenuta garantiva un equilibrio essenziale per un ordinato progresso di crescita sociale degli italiani, al riparo da perentori aut-aut provenienti dagli scenari internazionali. Lo stereotipo del democristiano accomodante, carrierista, attento a procurarsi consenso di clientele o di correnti è l’esatto opposto del modello Fanfani. Il principio di comportamento, cui non venne mai meno, è scolpito in questa frase scritta il 25 novembre 1950: «Cari amici, torna per la quarta volta il problema, che vi ho posto in ottobre e in novembre: decidersi a fissare una regola d’azione per non continuare a far ridere.
Se siete di parere diverso, fate pure, ma se siete di questo parere, ditelo e sono sempre disposto a fare anche senza di voi o, con l’aiuto di Dio, anche contro di voi». Questa sincerità e indipendenza di giudizio fanno da basso continuo nella costruzione dei due poli nella nazione politica: che tutti abbiano da lavorare e da mangiare, e che la società sia sostenuta dal progresso economico. Ma veniamo ad un altro aspetto dell’attualità di Fanfani. Ai tempi della sua giovinezza, cattolicesimo sociale e cattolicesimo democratico erano vocazioni distinte. Sturzo nel 1919 sembrò, col popolarismo, liberarle in un partito aconfessionale. De Gasperi, nel 1945, adottando l’aggettivo «cristiana» per la sua Democrazia, intendeva tener lontano la Chiesa Cattolica dalla lotta politica. Fanfani aveva scritto nel 1945, coincidendo con Maritain: «Partiti d’ispirazione cristiana sì, e possibilmente tutti; partiti cosiddetti cattolici, no, nessuno; e ciò per lasciare alla Chiesa la sua nobile funzione di madre comune, di arbitra, di unificatrice, di ispiratrice della nostra civiltà». Oggi, che la stagione della cosiddetta prima Repubblica si è del tutto consumata, si apre la discussione sull’irrilevanza dei cattolici nella vita politica. Si dibatte la questione se non debba costituirsi un partito per promuovere in Parlamento, nel Governo, nel mondo delle istituzioni, i valori del Cristianesimo. Se la vicenda di Fanfani viene letta riduttivamente nella sconfitta della Democrazia Cristiana, la questione odierna può apparire velleitaria ed effimera. Ma se da questi Diari vien fatta emergere la dimensione profonda di quel disegno politico, e cioè l’edificazione di una «civitas human», in luogo di una nazione frantumata in innumerevoli ragioni di conflitto e di divisione, allora il contributo dei cattolici, in quanto cittadini, tornerà ad apparire un irrifiutabile sostegno per le buone sorti della nostra fragile democrazia. Purché da tutte le parti si faccia rigoroso autoesame delle insufficienze di principi e comportamenti, finora predicati e praticati, con danno di quella concordia morale, che siamo tenuti a cercare e a vivere, se vogliamo continuare ad abitare in una patria comune.

DI FRANCESCO PAOLO CASAVOLA

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