Einaudi vs Croce. Differenze abissali tra due liberali (Domenica)

di Giuseppe Bedeschi, del 18 Novembre 2013

da Domenica (Il Sole 24 0re) del 17 Novembre

In un suo agile e succoso libretto (Liberalismo senza teoria), pieno di spunti e direi di pungoli critici, miranti a discutere alcuni nodi essenziali del pensiero liberale, Corrado Ocone si propone, fra le altre cose, di mostrare la profonda consonanza fra due grandi pensatori liberali italiani, Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Le loro concezioni, egli dice, avevano in comune un nodo teorico fondamentale: il conflitto. «Su questo aspetto specifico – afferma Ocone – non c’è stata, fra Croce ed Einaudi, polemica o discussione: entrambi ritenevano infatti che l’ideale liberale fosse imprescindibile dalla lotta fra gli individui e i gruppi». In questo quadro Ocone illustra, con perizia ed eleganza, il nucleo centrale del liberalismo di Croce: il suo rifiuto della concezione gentiliana dello Stato etico (poiché, diceva il filosofo napoletano, lo Stato è soltanto una «forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi; così fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone»); rifiuto che fa tutt’uno, in Croce, con la convinzione che il dissenso e l’opposizione siano elementi fondamentali della vita politica, l’esistenza e la libertà dei quali lo Stato liberale deve tutelare e proteggere, perché senza di essi non c’è rinnovamento e non c’è progresso.
A questa concezione crociana Ocone avvicina giustamente la concezione di Einaudi, espressa in quel saggio straordinario dell’economista piemontese intitolato “La bellezza della lotta”. Qui Einaudi mostra un grande apprezzamento per il socialismo riformista, e ritiene elementi essenziali di una società liberale tanto le organizzazioni padronali quanto quelle operaie, purché esse non travalichino i compiti ad esse propri, che sono di mutua difesa entro limiti che non intacchino i meccanismi fondamentali della concorrenza economica, della dialettica sociale e del continuo perfezionamento tecnologico e professionale. Solo così ci potrà essere costante progresso non solo economico, ma anche civile e culturale (economia e cultura, peraltro, sono divisibili solo in astratto).
Fin qui le convergenze fra Croce ed Einaudi. Ma possiamo fermarci a questo punto, come fa Ocone? Se così facessimo, verremmo meno, io credo, a una fondamentale istanza crociana (che dovrebbe stare a cuore a Ocone): l’istanza della distinzione. E non riusciremmo a dare conto di una importante affermazione di Einaudi, assai critica verso Croce, la quale suona così: «si prova un vero stringimento di cuore nell’apprendere da un tanto pensatore [Croce] che protezionismo, comunismo, regolamentarismo e razionalizzamento economico possono a volta a volta secondo le contingenze storiche diventare mezzi usati dal politico a scopo di elevamento morale e di libera spontanea creatività umana». Naturalmente, Ocone conosce bene questa critica di Einaudi a Croce, ma non fa i conti con essa. Infatti, che cosa c’è dietro quella critica? C’è un radicale dissenso espresso dall’economista piemontese verso l’indifferenza di Croce per gli assetti economico-sociali. Secondo il filosofo napoletano, infatti, se il comunismo avesse avuto ragione nel ritenere che l’ordinamento capitalistico ha come effetto di danneggiare la produzione della ricchezza, il liberalismo non avrebbe potuto «se non approvare e invocare per suo conto» l’abolizione della proprietà privata. Dopotutto, sosteneva Croce, «il contrasto ideale del comunismo col liberalismo, il contrasto religioso, consiste in altro», ovvero consiste «nell’opposizione tra spiritualismo e materialismo, nell’intrinseco carattere materialistico del comunismo, nel suo far Dio della carne o della materia». Al che Einaudi obiettava che un liberalismo il quale accettasse l’abolizione della proprietà privata e l’instaurazione del comunismo in ragione di una sua ipotetica maggiore produttività di beni materiali, non sarebbe più liberalismo, e che l’essenza di quest’ultimo non può sopravvivere là dove la società civile è interamente dominata e plasmata dallo Stato.
Qui si tocca un punto di radicale dissenso fra i due pensatori italiani: un dissenso che investe tanto i presupposti quanto l’impianto delle loro concezioni liberali. Del resto, Ocone sottolinea giustamente quanto fosse importante, per Einaudi, il famoso saggio di John S. Mill “Sulla libertà”. Orbene, Croce riteneva invece che in quel saggio milliano «la sincera fede liberale dell’Autore [venisse] meschinamente e bassamente ragionata mercé dei concetti di benessere e di felicità e di prudenza e di opportunità». «Poveri e fallaci teorizzamenti», quelli di Mill, secondo Croce, che facevano del liberalismo un «individualismo utilitario», e che abbassavano «lo Stato a strumento dell’edonismo dei singoli». Anche nella valutazione di Mill, dunque, c’era fra Croce ed Einaudi un vero e proprio abisso.

di Giuseppe Bedeschi

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