Ecco come l’Isis fa affari trafficando opere d’arte (Il Giornale)

di Matteo Carnieletto, del 11 Gennaio 2016

Luca Nannipieri

Arte e terrorismo

Sulla distruzione islamica del patrimonio storico artistico

Da Il Giornale dell’11 gennaio

Pochi hanno raccontato di come l’Isis riesca a fare soldi (a palate) vendendo opere d’arte trafugate dalla Siria o dall’Iraq. Uno di questi pochi è Luca Nannipieri, volto noto de Il cafè di RaiUno, penna brillante delle pagine culturali de Il Giornale e autore di Arte e terrorismo (Rubbettino).
Un amante dell’arte e della bellezza in tutte le sue forme. Sempre pronto a difendere le ricchezze più maltrattate del nostro Paese: quelle artistiche.
Dottor Nannipieri, Isis sembra essere il primo gruppo terroristico che odia l’arte: ha distrutto l’arco di trionfo e il tempio di Baalshamin a Palmira. Anzi, ha fatto anche di più: ha fatto diventare questo antico luogo il set di macabre esecuzioni. Come mai, secondo lei, gli uomini dello Stato islamico odiano così tanto l’arte?
Da sempre i popoli distruggono o violentano i segni del nemico o del passato che non riconoscono. L’abbiamo fatto anche noi di recente: se a Baghdad le statue di Saddam Hussein abbattute nel 2003 dalla coalizione guidata dagli Usa e dalla folla inferocita, fossero state preservate, tra 100 anni le adoreremmo come segni di storia al pari dei busti di Napoleone e Marco Aurelio. L’unicità drammatica della situazione attuale è che gruppi estremistici islamici, non solo l’Isis, in almeno 20-22 Paesi nel mondo, tra Medio Oriente, Africa sahariana e mediterranea e Asia centro meridionale, vogliono abbattere tutto ciò che è pre-islamico, avvolto nella jahiliyya, ovvero nell’ignoranza della verità svelata da Maometto, oppure tutto ciò che è idolatrico e allontana dalla shari’a, dalla strada da seguire. L’Isis sembra l’unico a distruggere perché è l’unico che dell’abbattimento e del saccheggio del patrimonio storico-artistico ne ha fatto un mezzo di propaganda e di auto-riconoscimento formidabile, molto più dei talebani, che abbatterono quasi in sordina i grandi Buddha di Bamiyan, o degli integralisti di Ansar Dine in Mali quando sbriciolarono in silenzio i 7 mausolei di Timbuctù.
Se da una parte i terroristi odiano l’arte, dall’altra la usano per far soldi. Pecunia non olet, dicevano gli antichi. Ma come è possibile vendere reperti così importanti? Chi sono i loro acquirenti? E quali canali vengono usati per questo commercio?
Il grande magnete del contrabbando internazionale di opere d’arte saccheggiate dal Medio Oriente o dall’Africa mediterranea siamo noi. Basta guardare internet, Facebook, eBay, cataloghi di case d’aste londinesi, vetrine d’antichità online, per capire come questo commercio sia alimentato da istituzioni, musei, gallerie, collezionisti, mercanti occidentali, ma anche dal semplice acquirente con 50 euro in tasca. Se guardiamo in Egitto i siti archeologici di Antinoupolis, el Sheikh ‘Abadah, el Hibeh, Heracleopolis Magna, Abu Rawash, Sharqiya, sono un gruviera di scavi clandestini e il Mallawi National Museum di Minya, 250 km a sud del Cairo, fu interamente depredato nel 2013. In Iraq e Siria, sciacallati quasi 300 siti archeologici tra Aleppo e Palmira. L’Istituto delle Nazioni Unite per la Formazione e per la Ricerca ha parlato di 24 siti cancellati e 188 gravemente o parzialmente danneggiati. Il gigantesco Leone di Al-Lat, nel giardino del Museo Archeologico di Palmira, è stato ridotto in briciole. Sono stato il primo in Italia, come scrive Panorama, a documentare nel dettaglio il percorso via mare e terra del contrabbando di questi frammenti e reperti: centro di smistamento in Libano a Beirut, che è un porto fiorente (1 milione di container, 50 agenzie di spedizione) ed è uno snodo fondamentale per il traffico attraverso i tir. La rotta via mare è verso i porti atlantici (solo 2-3% dei container è controllato), via terra è attraverso i Balcani utilizzando documenti internazionali di trasporto che permettono passaggi inviolati alle dogane e alle frontiere, con controlli solo all’origine e a destinazione. Una volta in terra europea o Inghilterra, alle opere viene prodotta una sorta di “carta d’identità” contraffatta da esperti di settore per evitare il reato di precettazione. Con questa “carta d’identità” e altri piccoli passaggi le opere possono essere immesse nel mercato ed entrare nel circuito delle case d’aste londinesi e delle gallerie americane.
Tempo fa, si era diffusa la voce di inviare i “caschi blu” dell’Unesco per difendere le antichità siriane dalla barbarie dell’Isis. Secondo lei è una risposta soddisfacente o ci vorrebbe qualcosa di più?
L’Unesco finora è solo un produttore di comunicati stampa. Condanna le distruzioni, ma è impotente. I caschi blu dell’Unesco cosa farebbero in Siria? Con quale preparazione militare? Con quale competenza storico-archeologica? Con quali coperture? A chi rispondono? Chi è la loro autorità? L’Unesco? L’Italia? La Francia, gli Usa? A quale legge rispondono? Non esiste una legislazione internazionale in materia. Esistono solo convenzioni generiche. La favola dei monuments man, targati Unesco, va bene al cinema. Invece, come scrivo nel mio libro Arte e Terrorismo (Rubbettino, 2015), ecco cosa si può fare. I contingenti militari e i servizi di sicurezza, impegnati in operazioni di guerra o di pace, si dotino al loro interno di nuclei operativi che abbiano lo specifico compito di documentare le distruzioni o i saccheggiamenti, attraverso satelliti o droni o presa diretta, spedire il materiale riservato ad un’istituzione competente, specificatamente attiva su questo delicatissimo e planetario problema, vagli il materiale informativo che le viene fornito e lo rielabori per capire che cosa è stato distrutto, che cosa ha necessità di essere preservato, ricomposto, restaurato, che cosa deve essere messo in salvo in caso di una recrudescenza delle attività militari, in che modo ricostruire un dialogo non “distruttivo”, ma propositivo, tra patrimonio e popolazione circostante.
Il 2015 ha visto la tragica morte di Khaled Asaad, l’archeologo di Palmira decapitato dai miliziani dell’Isis. Come ha scritto Gian Micalessin, Khaled si è fatto uccidere pur di non dire il luogo in cui aveva nascosto i tesori di Palmira. In tanti hanno proposto di intitolargli musei, le bandiere sono state esposte a mezz’asta per lui. Eppure ora il nome di Khaled è scomparso. Nessuno si ricorda di lui. Come possiamo, invece, noi fare qualcosa perché il suo sacrificio non sia vano?
Se vai in carcere in Italia o in un paese dell’Europa e chiedi: chi è dentro per aver commerciato illegalmente opere d’arte saccheggiate? Nessuno alza la mano. Al massimo becchi una multa. Si vuole ricordare Khaled Asaad? Non servono intitolazioni di giardinetti. Iniziamo a cambiare la legge. Il primo che in Italia viene beccato a trafficare opere saccheggiate, viene condannato duramente alla galera. Questo è un modo concretissimo e non retorico di onorare chi si è fatto staccare la testa e impiccare ad una colonna di Palmira.

di Matteo Carnieletto

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