E don Barsotti diventò critico letterario (Avvenire)

del 17 Giugno 2013

Divo Barsotti

Dire Dio raccontando l’uomo

Fede e dissacrazione nella letteratura italiana del '900

a cura di Stefano Albertazzi

Da Avvenire del 15 giugno 2013

La grandezza di Divo Barsotti, anche come critico letterario, che approccia la letteratura in maniera viva e profonda con gli strumenti critici della teologia nel rapporto tra l’uomo e Dio, viene ora ampiamente riconfermata da un libro che raccoglie una serie di lunghi saggi, scritti per la maggior parte tra il 1967 e il 1968 per una rivista fiorentina “Città di Vita” che tra i collaboratori annoverava Carlo Betocchi e Nicola Lisi, Mario Luzi e Margherita Guidacci, Geno Pampaloni e Carlo Bo. Riguardano soprattutto grandi narratori italiani del Novecento, da Svevo a Pirandello, da Pavese a Palazzeschi, fino a Tomasi di Lampedusa. A completare questo percorso, di per sé unitario, il volume chiude con un lungo e bellissimo saggio su Clemente Rebora, oltre a due interventi su Montale, apparsi negli anni Novanta sul nostro quotidiano. Un percorso, quello che viene delineato, nato dalla consapevolezza in Barsotti, che «ogni letteratura ha carattere sacro: nella parola vera dell’uomo parla anche Dio». Proprio questo aspetto delinea «il dramma di ogni letteratura». È una convinzione che spiega ampiamente nel saggio su Clemente Rebora, quando indica l’arte come possibilità assoluta per esprimere l’uomo nella sua interezza, al punto che sottolinea: «gli unici strumenti per arrivare all’anima di unuomo sono la poesia e l’arte». Così a determinare la posizione teologica che guida la lettura della tradizione novecentesca italiana, in modo profondamente nuovo e innovativo, anche a distanza di più di quarant’anni dalla loro stesura, c’è la certezza in Divo Barsotti che l’arte sia «lo strumento più valido e più efficace per esprimere tutta la vita dell’uomo: sia quella di un uomo che ha fallito, che quella di un uomo che ha trovato… L’arte espressione precisa dell’uomo, lo rivela quale quale è, e così facendo rivela anche che l’uomo rimane testimone dell’Assoluto», anche quando arriva ad eliminare Dio dalla sua anima. vale la pena di sottolineare la lettura che dà di uno scrittore, oggi forse troppo dimenticato, come Palazzeschi, del quale preferisce non tanto le opere in cui il mondo della religione è rappresentato con molta disinvoltura, ma quello dove emerge il discorso religioso in modo «vivo» e «sincero». «Chiese, funzioni sacre, preti, monache, frati: si direbbe che l’estro di Palazzeschi abbia bisogno di questo colore», eppure la sua religione della gioia, «che è generosa accettazione della vita» , manca del senso di Dio. A riscattare tutto c’è però un romanzo troppo dimenticato, I fratelli Cuccoli, per il quale Barsotti azzarda un paragone assai impegnativo, quello tra Celestino Cuccoli e il Principe Myskin de L’idiota di Dostoevskij, uno dei suoi numi tutelari: «Celestino è l’immagine del Cristo come la può avere il Palazzeschi, così come il Principe e l’immagine del Cristo che ebbe lo scrittore russo». Pagine tutte illuminanti queste di Barsotti che offrono nuove possibilità interpretative, come la scoperta della religione della legge in Svevo, il messaggio della salvezza in Pirandello, la lotta con Dio in Pavese, la presenza di cristianesimo e di paganesimo nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, fino all’ampia lettura di Clemente Rebora che diventa «un simbolo dell’uomo moderno», definito da Barsotti, «poeta e santo, un esempio, si direbbe unico, in tutta la letteratura italiana».

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