Dall’arte alla politica (L'Osservatore Romano)

di Eugenio Capozzi, del 24 Febbraio 2014

Luigi Compagna

Theodor Herzl

Il Mazzini d'Israele

da L’Osservatore Romano del 22 febbraio

ll movimento sionista ha molti tratti in comune, com’è noto, con altri fenomeni politici e ideologie dell’Ottocento europeo. In particolare, esso si può assimilare per molti versi ai grandi processi di costruzione delle identità nazionali che in quel secolo hanno svolto un ruolo centrale. Ma ciò che lo caratterizza specificamente è la sua intrinseca commistione con la dimensione letteraria. È vero che un certo tasso di retorica artistica e/o accademica contrassegna i modelli politici prodotti da tutti i movimenti di Italian building europei. Ma la ridefinizione dell’ebraismo secondo i canoni ottocenteschi del “popolo” e della “nazione” attinge a uno strato ancor più profondo: si presenta innanzitutto come “ispirazione” individuale di uno scrittore, in cui il registro della profezia biblica, quello del romanzo e quello della lirica di ascendenza romantica si fondono in un’inedita sintesi.
Quel nesso primario tra elaborazione letteraria, ideologia e leadership politica è posto particolarmente in evidenza, non a caso, in alcune tra le migliori biografie di Herzl pubblicate in Italia negli ultimi anni, come quella dí Luigi Compagna (Herzl, il Mazzini di Israele, Sovenia Mannelli, Rubbettino, 2010) e quella di Paola Paumgardhen (Theodor Herzl tra letteratura e sionismo, Roma, Bonanno Editore, 2011). Nato a Pest in Ungheria nel 1860 da una famiglia della media borghesia ebraica ben inserita nella vita economica e sociale dell’impero asburgico, Herzl era cresciuto in una comunità israelitica che sposava pienamente l’ideale della modernizzazione e l’idea di una propria assimilazione alle comunità nazionali in via di consolidamento, come quella tedesca e ungherese. Ma per il giovane Theodor, che intanto muoveva i primi passi come autore di feuilleton e di lavori teatrali, il sogno di un ebraismo pienamente moderno, nazionalizzato e a un tempo cosmopolita doveva ben presto rovesciarsi, negli ultimi decenni del secolo, in un incubo. Nelle società europee continentali la crescente nazionalizzazione delle masse a contatto con l’ascesa sociale degli ebrei da poco emancipati produceva la mutazione genetica dagli antichi pregiudizi antigiudaíci all’antisemitismo ideologico, in poco tempo gonfiatosi in un’ondata gigantesca di rigetto verso le comunità israelite. Nazionalismi sempre più esclusivisti – variamente mescolati ad altre componenti culturali come l’antiborghesismo socialista e il positivismo darwinista/evoluzionista – spingevano settori crescenti di quelle società a identificare l’ebreo con il “nemico interno”, il parassita distruttore dei popoli contrassegnato dall’avidità smisurata, dall’attitudine alla cospirazione, dalla tendenza a monopolizzare le leve del potere economico e politico.
Fu lo choc del furore antisemita, che cancellava bruscamente le speranze dei giovani ebrei di trovare un posto dignitoso tra le classi dirigenti di un’Europa in tumultuoso sviluppo, a imprimere alla produzione artistica di Herzl una svolta in senso politico. Lo scrittore cominciò a percepire come sempre più urgente la necessità di porre al centro delle proprie opere la condizione degli ebrei nel nuovo drammatico quadro che si andava profilando, e la ridefinizione dell’identità ebraica sulla falsariga delle altre nazionalità europee. La passione politica lo spinse allora a trasferirsi a Parigi nel 1892 come cronista parlamentare per il giornale viennese «Neue freie Presse», per osservare da vicino la democrazia francese, ma anche l’evolversi del fenomeno antisemita nel cuore dell’Europa. E lì il caso Dreyfus lo convinse definitivamente dell’urgenza di una decisiva reazione degli ebrei alla loro nuova emarginazione. Ne derivò una decisa svolta ideologica nella sua produzione letteraria. La sua prima opera integralmente politica fu il dramma Das neue Ghetto del 1894, in cui si esprimeva la dolorosa constatazione che l’integrazione degli ebrei in Europa si era rivelata un’illusione, e che le mura cadute dei ghetti erano state ben presto ricostruite in forme immateriali, ma ancor più duramente divisive. Attraverso i personaggi del dramma, lo scrittore metteva in scena la contrapposizione netta tra l’ebreo “vecchio”, adagiato sullo stereotipo che gli europei avevano costruito su di lui, e quello nuovo, colto e consapevole, destinato a costruire una comunità dalle origini ancestrali, ma che doveva guardare a un mondo futuro di libertà e progresso. Stava già maturando in Herzl della fondazione di un vero e proprio Stato nazionale ebraico, che sarebbe stato di lì a poco esposto in forma organica nell’opuscolo che rese Herzl famosissimo, e fece guardare a lui come il “profeta” del nuovo Israele: Der ludenstaat, pubblicato nel 1896. Da allora in poi, gli anni di vita che restavano allo scrittore sarebbero stati dedicati a una febbrile attività di organizzatore, fund raiser e rappresentante “diplomatico” della nazione ebraica in embrione, nello sforzo di assicurare a essa la sede della nuova compagine statuale. Attività nella quale, però, lo scrittore ebreo austro-ungherese avrebbe sempre conservato ben chiari alcuni tratti distintivi della propria formazione culturale, che impedivano al programma sionista, pur nella sua origine “poetica”, di ridursi a una utopia arcaicizzante, o di degenerare in un etnicismo su base razzista. Herzl rimase infatti Fino alla Fine un ebreo orgogliosamente “assimilazionista” di cultura germanica, come dimostrava il suo rifiuto della lingua jidclisch e il suo attaccamento a quella tedesca. Egli riteneva che lo Stato ebraico dovesse essere un luogo aperto e tollerante, in cui trovassero posto individui di qualsiasi origine e credo religioso, accomunati dalla volontà di costruire una civiltà più evoluta volontà che traspare con evidenza dal suo romanzo/testamento utopico, Altnculand, del 1902. Era questo, propriamente, il sogno poetico di Herzl: gli ebrei come forza espansiva e aggregante di una nuova civilizzazione europea nel mondo. Una visione ottimista che, se preconizzava con largo anticipo la nascita dello Stato etnico-confessionale, ma al tempo stesso laico, di Israele in Palestina, sottovalutava fatalmente le terribili potenzialità di sviluppo dell’antisemitismo novecentesco: che avrebbero condotto quello Stato a sorgere come risposta all’orrore indicibile della Shoah.

di Eugenio Capozzi

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