Da Machiavelli a Grillo, sempre i soliti complotti (Il Mattino)

di Ausilia Guerrera, del 20 Maggio 2016

Da Il Mattino del 15 maggio

Non sarebbe male l’idea di istituire nel paese di Machiavelli una cattedra di complottismo per tener testa a un’opinione pubblica complottista. La questione è antica e tuttavia attuale. Sfatare un luogo comune non è facile, ma è l’ambizione di una raccolta di saggi, Congiure e complotti. Da Machiavelli a Beppe Grillo (Rubbettino Editore), curata da Alessandro Campi e Leonardo Varasano. La storia non delude se a ripensarla è un libro che la passa in rassegna sotto i raggi X della congiura e del complotto. Che tuttavia, come spiegano gli autori, non sono né sinonimi né intercambiabili, a dispetto della vulgata che li amalgama e banalizza.
Il complotto è segno di un tempo crisi, la congiura è stigma della storia passata – irriducibili l’uno all’altra, per statuto. È questa la tesi del volume che, smarcandosi dalla letteratura in materia, opera un dovuto distinguo fra i due concetti, a partire dall’etimologia. E racconta di uno slittamento semantico, concettuale ed epocale.
C’è un’epoca, quella rinascimentale, che sfuma in dissolvenza in un’altra, quella moderna, e dalla congiura si passa al complotto. Ciò avviene ai tempi di Machiavelli, teorico della congiura e virtuoso anatomista della politica, coinvolto di sbieco in una trama ordita contro i Medici.
Con Machiavelli, inizia la «teatralizzazione» della politica: si ha l’irruzione dell’arte nella vita politica. Cosicché Il Principe può essere letto come manuale di recitazione. È a questo punto che la congiura si accampa sul proscenio della storia come forma perduta di lotta politica radicale e come impresa sediziosa e scellerata destinata sovente allo scacco, ma capace talvolta di determinare cambiamenti profondi e permanenti negli equilibri del potere.
E giunge il complotto, che inizia a spirare mefistofelico, con il suo volto di fantasia letteraria e credenza ancestrale, grazie alla mafia della sua «verosimiglianza». Basti pensare all’esistenza di una «doppia verità», quella perversa ufficiale dello Stato e quella autentica persino teorizzata da certe correnti della storiografia nazionale, fino a imporre un paradigma di ricerca e ad alimentare un filone giornalistico d’inchiesta. Il dossieraggio odierno è suo lascito e tentacolo. Una retorica e una passione cospiratoria ormai dilagate nella sfera della lotta pubblica e nella pubblicistica.
Il volume indugia, con lo scritto di Raoul Girardet, sul mito della cospirazione universale, «leggenda nera e imperitura» che sferza la storia moderna e contemporanea: la cospirazione ebraica per imporre un nuovo ordine mondiale e i Protocolli dei savi di Sion. Ma i Protocolli sono un apocrifo, un falso divenuto comunque libro di culto del cospirazionismo mondiale (ancora oggi molto letti nel mondo arabo-musulmano).
Secondo Alessandro Campi, «se nel Rinascimento era la politica a fantasticare sulla società, da un certo momento è la società a fantasticare sulla politica». Accade con l’epifania della modernità e nei momenti di crisi epocale; accade di fronte alle accelerazioni brusche della storia, quanto la verità monolitica sedimentata da secoli nelle coscienze si frantuma in mille cocci, nelle «schegge del relativismo» e incombono lo spaesamento e l’incertezza. Si insinua allora il dubbio e nulla è più come prima (e come appare).
Il serpeggiare di quest’arte cospirazionista, opaca e ingannevole, non è esclusiva dei regimi totalitari, ma è covata come una serpe anche in seno alle democrazie, ad esempio quella americana, se è vero che dalle ceneri di Ground Zero si è sollevata una nube di illazioni e tesi cospirazioniste. Tipo quella secondo cui ben quattromila ebrei non sarebbero andati a lavoro nelle Torri Gemelle, quel giorno dell’11 settembre 2001. Sapevano. Una società secolarizzata che non si aggrappa più alla religione ma al dio danaro, diventa incapace di sopportare la causalità nella storia, brancola al buio ed è irretita in un immaginario oscurantista che affiora da un sottofondo ancestrale e che si spiega per l’Italia con un costume che De Sanctis definiva «cascame delle tirannie».
Il punto è che il complotto non è appannaggio ed esclusiva delle destre reazionarie, ma è una forma mentis trasversale, che pervade anche la sinistra. È una mentalità che spiega il presente sempre in controluce. Con una casistica sconfinata, inghiottita nel buco nero del mistero: Emanuela Orlandi; la vicenda Sindona; la morte di Falcone e Borsellino; il caso Mattei; Aldo Moro, gli anni di piombo e la strategia del terrore (con la longa manus della CIA, ovunque); il golpismo di Gladio; la Loggia P2 e Licio Gelli; il caso Achille Lauro, Sigonella e Tangentopoli; i due Vatileaks coi corvi e le dimissioni di Papa Benedetto; le dimissioni di Berlusconi. Tutta la storia contemporanea dal secondo dopoguerra è – come si legge nel saggio di Varasano – una sequela ed escalation di trame, imbastite nell’ombra dai servizi segreti, dalle mafie, e dai poteri forti. A riprova che il complottismo è il vero nervo scoperto della nostra attualità politica, non solo in Italia.

di Ausilia Guerrera

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