Contro la dittatura dello spread serve tornare alla politica (La Gazzetta del Mezzogiorno)

di Gianfranco Summo, del 23 Luglio 2015

Da La Gazzetta del Mezzogiorno 23 Luglio

Tra le tante conseguenze della più incisiva e vasta crisi economica – che stiamo ancora vivendo – dell’era moderna ricorderemo il cambiamento forse irreversibile dell’atteggiamento collettivo nei confronti dei temi economici. La materia era, fino a pochissimi anni fa, sempre conseguenziale e mai primaria. Ci si interessava essenzialmente di politica e ideologie, ci si appassionava alle vicende di partito e alle relative tristezze quando le cronache politiche sfociavano in quelle giudiziarie. Al bar si poteva partecipare con la stessa passione alla disputa sul rigore nell’ultimo derby e alla discussione sul ruolo del proprio leader politico di riferimento. Poi è arrivata l’era dello spread e niente sarà più uguale a prima. La polverizzazione delle ideologie ha affrancato l’economia che è passata dal ruolo di strumento operativo per la realizzazione di
un disegno condiviso a motore autonomo e origine di dinamiche avulse da logiche dirigistiche. Naturalmente era illusoria la prima certezza così come è falsata la seconda visione. L’economia non si può pretendere di domarla e neppure si può immaginare che vada lasciata veleggiare senza timone. Ma intanto è diventata argomento «popolare», che suscita interesse comune, è uscita dai seminari scientifici ed è entrata nella quotidianità. A voler ascoltare vecchie campane, c’è in questo un disegno ben preciso: è bene che i cittadini europei guardino in faccia la realtà, perché ora non c’è più il Partito (qualunque esso sia stato) a fare da ammortizzatore, ora c’è l’austera tecnicità dei bilanci con cui fare i conti e tutto passa in secondo piano. Fallita o superata la politica, ora comandano i tecnocrati europei e i nuovi punti di riferimento sono banchieri, gestori di fondi di investimento, intermediatori finanziari e c’è poco da mediare: i conti devono tornare e basta. Magari non è così, ma un fenomeno ci appare sempre più mostruoso quanto più è sconosciuto, l’ignoto fa paura.
Ecco perché è sorprendente leggere le centoventi pagine di Nuova Europa o neonazionalisrno, l’ultimo libro di Antonio Patuelli. Al di là dei meriti puramente «narrativi» (la scorrevolezza e il linguaggio) che pure non sono poca cosa, Patuelli tiene insieme senza
paura di andare fuori tema l’Unità d’Italia e il fiscal compact, De Gasperi e l’euro. Il suo non è un compiaciuto saltabeccare, tutt’altro: è un riuscito tentativo di legare insieme fili solo apparentemente lontani, ma che una volta tessuti formano una trama capace di offrire finalmente una lettura complessiva e argomentata dei fatti che viviamo oggi. Con il vantaggio della sintesi e della chiarezza (spesso altrove ingiustamente sacrificati a favore di prolissi trattati per i quali non si riesce mai a capire dove finisce l’intento divulgatorio e dove comincia lo sterile narcisismo letterario). La meraviglia, noi, nel caso di Patuelli, è che a dipanare tesi politico-sociali prima ancora che economiche è proprio lui, di mestiere banchiere in qualità di presidente della Cassa di Risparmio di Ravenna. Di più. Patuelli è il rappresentante dei banchieri visto che da due
anni e mezzo è alla guida dell’Associazione Bancaria Italiana. Quindi ci si aspetterebbe un atteggiamento tutto diverso: la realtà spiegata con grafici e
tabelle per ristabilire il primato del tasso di interesse e del pil sull’interesse della gente. E invece no. Patuelli prova a spiegare questi tempi incerti con la storia del nostro Paese, travasando l’Italia in Europa e raccontando che cosa di buono l’Europa unita ha fatto, con un parallelo rispetto all’Italia unita, e che cosa invece deve ancora fare.
La Storia si interseca alle storie dei nostri giorni in un crescendo causa-effetto che offre allo stesso tempo interpretazione della realtà e aneddotica, rievocazione politica ed elaborazione economica. Tale elasticità e opportuna disinvoltura interdisciplinare si spiega anche con la formazione e la storia
personale di Antonio Patuelli, con un passato di attivo uomo politico liberale e dunque abituato a maneggiare il tecnicismo come strumento. E torniamo al punto di partenza, dunque, la politica – quella vera, la cosa pubblica al servizio del pubblico interesse – che non è più capace di dare risposte coerenti alle esigenze dei cittadini, rischia di farsi dominare da dinamiche economiche che non è in grado di controllare. Ed ecco allora il rischio che si fa urgenza, sotto i nostri occhi: le forze estremiste, i nazionalismi, i populismi che tentano di prendere il sopravvento e occupare gli spazi di crisi, facendoci mettere in discussione il concetto stesso di Europa, la natura stessa della libertà economica fino a far tracimare queste scorie in tutti gli àmbiti della nostra società multiculturale e multietnica, compresa quella religione che, se manipolata con spregiudicata astuzia, diventa uno strumento di terrore. A tutto questo bisogna dare risposte, e in fretta, sembra
ricordare Patuelli, prima che il sogno europeo si infranga in una brutta copia dei nazionalismi liberticidi azzerando decenni di progresso sociale
ed economico. E le risposte, per quanto possa suonare strano in questi tempi, devono essere politiche.

Di Gianfranco Summo

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