Contro Giolitti il fuoco amico della sua «Italietta» (Ilgiornale.it)

di Giampietro Berti, del 3 Giugno 2015

Luigi Compagna

Italia 1915

In guerra contro Giolitti

Da Ilgiornale.it

Giolitti, il giolittismo e l’antigiolittismo occupano tutto lo spazio politico della storia italiana del primo quindicennio del ‘900. Il libro di Luigi Compagna Italia 1915. In guerra contro Giolitti (Rubbettino, pagg. 192, euro 14) presenta un punto di vista innovativo e polemico sul tema. L’autore focalizza l’attenzione sull’entrata nel conflitto mondiale, ricostruendo l’azione politico-diplomatica avviata da Salandra e Sonnino che, unita alle manifestazioni degli interventisti capeggiati da d’Annunzio, ci portarono a fianco dell’Intesa contro gli Imperi centrali.
Nella contrapposizione tra il neutralismo di Giolitti e lo schieramento interventista, tradottasi nelle «radiose giornate di maggio» con lo scontro tra piazza e Parlamento, Compagna vede emergere un archetipo della storia d’Italia: la prepotenza delle minoranze contro la volontà dei più. La stragrande maggioranza del popolo non voleva la guerra: la Chiesa, e con essa pressoché tutti i cattolici, i socialisti e la maggior parte dei liberali che si riconoscevano in Giolitti erano contro tale scelta. Dallo «strappo costituzionale» Compagna trae spunto per delineare un paradigma interpretativo che dà conto di alcune costanti della storia italiana, fino ai tempi recenti. È la persistenza, soprattutto nelle élite intellettuali invasate da un bisogno di assoluto e da un moralismo settario – quindi sorde alle ragioni della politica -, del rifiuto del principio di realtà, con la conseguenza di ripercuotere questo infantilismo nella classe dirigente.
L’avversione alla «prosaicità» di Giolitti, demonizzato come male irriducibile in quanto espressione di trasformismo e di corruzione, ne è un esempio. Per Salvemini, Giolitti era «il ministro della malavita» e il suo governo una «dittatura» fondata su «una maggioranza parlamentare di delinquenti». Prezzolini lo definì la «canaglia di Dronero» e d’Annunzio ne auspicava «la lapidazione e l’arsione». Soffici lo descrisse «ignobile, losco, vomitativo» e Adolfo Omodeo lo bollò «male nazionale». Giudizi irresponsabili. L’ossessione antigiolittiana si protrasse nel primo dopoguerra e ciò impedì a molti di capire la natura del fascismo. Per Gobetti il giolittismo era stato un «mussolinismo in anticipo», mentre Salvemini continuò per mesi a ritenere Mussolini un male minore rispetto a Giolitti (però va detto che lo stesso Giolitti, come rileva Compagna, non capì inizialmente il fascismo). Ma l’«Italietta» di Giolitti aveva allargato il perimetro dello Stato liberale in direzione democratica: nel 1906 venne fondata la Confederazione Generale del Lavoro e nel ’12 si giunse al suffragio universale maschile. Prese il via la legislazione sociale con maggior tutela del lavoro di donne e fanciulli. La produzione industriale era raddoppiata rispetto a fine dell’800. Gli indici di reddito e di alfabetizzazione erano cresciuti, era calata la mortalità infantile, ed esisteva una rete di comunicazione abbastanza ampia, nelle città si erano sviluppati i servizi pubblici con illuminazione elettrica e acquedotti.
Certo, Giolitti non era un pedagogista: nel 1896 aveva dato la sua versione governativa del kantiano legno storto dell’umanità, scrivendo: «gli uomini sono quello che sono in tutti i tempi e in tutti i luoghi, con i loro vizi, i loro difetti, le loro passioni, le loro debolezze e il governo deve essere adatto agli uomini che sono come sono: il sarto che deve vestire il gobbo, se non tiene conto della gobba, non riesce».

di Giampietro Berti

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