«Condividere sì, ma non troppo. Altrimenti diventa tirannia» (Il Giornale)

di Nicola Porro, del 4 Aprile 2016

Da Il Giornale del 3 aprile

L’economia della condivisione o, come dicono quelli che parlano bene, la sharing economy, sembra diventare una tendenza inarrestabile. E piuttosto moderna. Non è così. Essa è sempre esistita laddove siano esistite delle comunità legate da rapporti sociali e familiari. Cioè in buona sostanza, ovunque. Quel che è cambiato sono gli attributi di questa economia: si condividono oggetti e servizi che un tempo non era immaginabile condividere per il semplice motivo che erano elitari, lussuosi, esclusivi. Oggi un’auto non lo è più (esclusiva) così come il computer o una stanza in un ufficio. Insomma, non solo non c’è una ragione al mondo per non condividere qualcosa che ha perso la sua forza esclusiva, ma ce ne sono molte per farlo.
Un ulteriore pregiudizio è quello che vorrebbe confinare l’economia della condivisione in un campo, per semplificare, collettivista. Prendiamo allora a prestito il principe del pensiero liberale e antisocialista: Friedrich A. von Hayek e il suo delizioso Individualismo: quello vero e quello falso, con bella prefazione di Dario Antiseri (Rubbettino, 1997). Per i collettivisti ai concetti come «società», «partito», «Stato» corrispondono delle realtà sostanziali, indipendenti dai singoli individui quasi vivessero di vita propria, con leggi che li regolano e controllano. Al contrario per gli individualisti ai medesimi concetti non corrisponde niente di specifico, «essendo essi – come scrive Antiseri – stenogrammi per individui e azioni di individui». La distinzione non è oziosa, non è roba da filosofi. Gli individualisti infatti indagano i fatti sociali considerandoli dalla prospettiva dei singoli e non dei concetti collettivi. Cosa rende grande uno Stato? Gli individui e i comportamenti degli individui che li compongono, non l’entità astratta che risponde al nome di Stato, che non si capisce per quale motivo debba essere di per sé (ontologicamente) più efficiente di un altro.
Insomma Hayek ritiene, e noi con lui, che l’approccio corretto per affrontare e studiare le scienze sociali, compresa la filosofia politica, sia quello del metodo individualista. A ciò segue un’altra grande intuizione di Hayek (e di Popper) e cioè che le grandi istituzioni sociali (dallo Stato al capitalismo, dai partiti politici al diritto) sono figlie di conseguenze inintenzionali di azioni umane intenzionali. E in questo i liberali si distinguono da quelli che Hayek chiama i falsi individualisti (gli enciclopedici francesi, Cartesio, Rousseau). Proviamo a spiegarci meglio usando proprio il caso nostro. Nessuno ha pensato di pianificare o progettare, con un sommo ragionamento alla Cartesio, l’economia della condivisione. Ma essa si è formata spontaneamente. I singoli individui (si parte sempre da loro) avevano necessità di risparmiare tempo e soldi. I singoli imprenditori volevano fare più quattrini vendendo prodotti che i singoli non volevano più comprare, inventandosi sempre nuove forme di business. La conseguenza inintenzionale di queste azioni umane intenzionali (risparmiare per gli uni, fare più soldi per gli altri) ha creato un’istituzione sociale, un esperimento economico (la condivisione) che per ora funziona. E così sarà fino a quando sarà interessante per i singoli. L’approccio per capire questo fenomeno non è dunque quello di pensare che sia stata un’operazione centralistica e pianificata, ma comprendere come sia stato il parziale, momentaneo, sviluppo del mercato.

di Nicola Porro

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