Come ci insegna un classico di Sergio Ricossa, è l’eccesso di norme a renderci davvero infelici (Il Giornale)

di Carlo Lottieri, del 17 Aprile 2012

Da Il Giornale – 17 aprile 2012
Come possiamo valutare il lavoro nel mondo d’oggi? E che dire di una società ossessionata dal Pil e volta solo ad accrescere i profitti? Molti rimproverano al mercato di generare troppo lavoro ed eccessiva ricchezza, e invitano alla decrescita. Ma non manca neppure la tesi secondo la quale allo sviluppo andrebbe imputato l’esatto opposto: nella forma della disoccupazione di massa. Il capitalismo, insomma, al tempo stesso ci farebbe lavorare troppo e troppo poco.

Per sbrogliare la matassa dei sofismi in circolazione può essere utile la lettura di un «classico» contemporaneo, quel volume del 1994 di Sergio Ricossa intitolato Impariamo l’economia(ora riproposto da Rubbettino con una bella prefazione di Lorenzo Infantino; 181 pagine, 12 euro) in cui l’economista esamina le maggiori questioni teoriche della vita pubblica e in cui vi è anche una replica all’accusa indirizzata al mondo capitalistico – accusa antica: già presente in taluni autori del Settecento –di avere predisposto un «meccanismo» infernale, che aliena l’uomo e lo sottrae a se stesso. L’accusa è in larga misura infondata e poggia su gravi errori concettuali. È corretto rilevare che in un mondo in cui tutti lavorano tanto perché ambiscono a vivere meglio, vi è una sanzione sociale per l’ozioso. Il giudizio su come si debba vivere è sempre soggettivo ed è comprensibile che taluni preferiscano il lavoro, mentre altri prediligono il «tempo libero». È però evidente che le fabbriche sono frequentate da lavoratori che in genere non sono deportati, ma che vi si recano spontaneamente. In molti Paesi, Italia inclusa, per la soddisfazione dei bisogni primari basterebbero poche ore settimanali di un lavoro non qualificato. Ma pochi si accontentano di soddisfare i cosiddetti «bisogni». e questo perché gli uomini sono curiosi, ambiziosi, esploratori. A qualcuno tutto questo dispiace: vorrebbero un’umanità più sobria e che fatichi meno. Ed egualmente bisogna prendere atto che il mercato globale attorno a noi, in cui giorno dopo giorno gli Ipad prendono il posto di altri marchingegni, è «votato» di continuo da quanti decretano il successo di tali prodotti: acquistandoli. Ricossa spiega assai bene come non vi sia nulla di più naturalmente umano dell’ artificiale.

L’imporsi della Rivoluzione industriale – ed è questo fenomeno che è all’ origine di un processo che ha sganciato il tempo consacrato alla produzione dai ritmi della luce solare e anche dalle modalità di uso e consumo dei beni più semplici – è il definirsi di qualcosa che da sempre è iscritto nell’uomo. È il carattere meravigliosamente «poietico» di ognuno di noi che conduce a dilatare il lavoro. Quando Ricossa si sofferma sulla nozione di capitale o quando indaga il profitto, il moralista sorregge l’economista, e viceversa. E quando usa Eugen Böhm Bawerk per ricordare che il marxiano «plus-valore» non è sfruttamento, ma è lo sconto che oggi l’imprenditore che acquista il lavoro altrui ottiene in vista di un (ipotetico ) profitto di domani, è chiara la consapevolezza che l’universo delle opinioni delle anticipazioni e delle rappresentazioni è vero e tangibile quanto lo è quello dei manufatti realizzati in un’ azienda. Contrariamente a ciò che credono quanti pretendono di opporre la concretezza della produzione all’ astrazione della finanza, al cuore della vita di ogni impresa vi sono relazioni di scambio basate su quella che gli economisti definiscono una diversa preferenza temporale: l’impresa sacrifica una parte del presente nella speranza di ottenere un beneficio in futuro. Nella sua riflessione, Ricossa attacca le vecchie superstizioni secondo cui le macchine ucciderebbero il lavoro (luddismo) e lo stesso farebbero le importazioni (colbertismo). Semmai i problemi dell’economia provengono proprio dalla presunzione dei legislatori che intralciano la vita sociale. Non a caso, il lavoro odierno è spesso una pena. Le cronache sono fitte delle vicende di imprenditori che si suicidano e bene fa chi sta rendendo omaggio a questo Spoon River delle vittime della pressione fiscale. Ma oltre a chi muore soffocato dalle tasse, c’è chi non trova lavoro perché talune relazioni contrattuali sono giudicate illegittime e abusive. Nel nostro universo minuziosamente amministrato, sono sempre più le norme a stabilire in quale modo dobbiamo riservare una parte della giornata alla fatica e un’altra allo svago. Ma le leggi non conoscono i nostri sogni e i nostri desideri: e il più delle volte li uccidono.

Di Carlo Lottieri

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