Cinepanettoni da studiare (Le Rane)

del 10 Maggio 2013

da Le Rane – Il Sole 24 Ore del 10 maggio 2013

Partiamo da un’equazione politico-cinematografica di Curzio Maltese: «Il cinepattone è stato al ventennio berlusconiano cosi come i “telefoni bianchi” stavano al ventennio fascista». La migliore illustrazione satirica di questa formula è in Boris: il film (2011), costola cinematografica della serie televisiva omonima, dove c’è un regista che vuole trarre da La casta di Stella e Rizzo un bel film poetico-civile sul modello di Gomorra, ma a forza di compromessi al ribasso finisce per girare un atroce cinepanettone a sfondo politico, Natale con la casta. La sceneggiatura comincia così: «L’Italia è il Paese che amo…», come il videomessaggio della discesa in campo del 1994. Dunque, parrebbe di capire, il berlusconismo è stato un cinepanettone lungo vent’anni. Ma come sappiamo fin dai tempi della scuola, nelle equazioni c’è sempre un’incognita. Dov’è, in questo caso? Semplice: la x è proprio il cinepanettone. Perché quelli che ne parlano come di un concentrato del degrado italiano sono i primi che non si degraderebbero mai a vederne uno. Paradossale, vero? Si dice che in un film c’è l’essenza dell’Italia, ma questo non incuriosisce a sufficienza da spingere a studiarlo. C’è voluto un irlandese, Alan O’ Leary, professore all’Università di Leeds e autore di Fenomenologia del cinepanettone (Rubbettino). O’ Leary è entrato in un cinema di Trastevere, a Roma, per vedere Vacanze dí Natale a Cortina, ma già dal modo in cui gli inservienti lo hanno squadrato nel foyer, con tanto di risatine sprezzanti, ha dovuto constatare che lo spettatore del cinepanettone non gode in Italia di ottima reputazione. Lo scrittore Francesco Piccolo descrisse la platea di Natale a Miami come un «altro mondo», fatto di donne in pelliccia e famigliole di obesi. Insomma, il pubblico sbagliato per il film sbagliato. È una vecchia storia: per buona parte della critica italiana, il comico buono è il comico morto o in pensione. Totò prima, Sordi poi, sono stati derisi come maschere della volgarità e del qualunquismo prima di essere acclamati come interpreti del costume nazionale. Fatte le debite proporzioni (e che proporzioni) qualcosa di simile potrebbe accadere con Boldi e De Sica. Ma non si tratta di difendere il cinepanettone, si tratta di capirlo. E di accorgersi, come dice O’Leary, che è «una forma ambivalente che esprime impulsi sia progressivi che reazionari» e che molti stereotipi che lo riguardano non reggono alla prova dell’analisi. C’è di più: il cinepanettone è stato spesso il solo canale attraverso il quale il cinema ha fatto i conti con l’attualità. Un esempio? Dopo vent’anni, il cinema d’impegno civile non ha ancora affrontato il nodo di Mani pulite. I Vanzina lo avevano fatto nel 1994, con S.P.Q.R. – 2000 e 1/2 anni fa. Certo, lo scontro tra il magistrato Antonio Servili (Boldi) e il senatore corrotto Cesare Atticus (De Sica) non era proprio un’indagine storico-politica da film di Pari o di Rosi. Ma siamo seri, credete davvero che gli spettacolini itineranti di Travaglio valessero di più?
 

Guido Vitiello

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