Antioccidentalismo (Il Foglio)

di Luciano Pellicani, del 26 Gennaio 2016

Da Il Foglio del 26 gennaio

Con grandissima enfasi, sulle pagine del Corriere della Sera, Donatella Di Cesare ha riproposto all’attenzione della critica la lezione di Walter Benjamin tutta centrata sull’idea che “il capitalismo è una pura religione di culto, forse la più estrema che sia mai stata data”. Dunque, come un sistema perverso, che, con il suo sfrenato consumismo, ha pervertito la natura umana. Che cosa rende il discorso di Banjamin particolarmente attuale, come afferma la Di Cesare, non è dato vedere. L’anticapitalismo è vecchio come il capitalismo stesso e si basa sull’idea, variamente declinata, che il dominatore del mondo moderno – lo spirito borghese – è l’ultimo avatar di Mammona, il perverso dio del denaro che tutto corrompe e degrada. Di qui il caratteristico pathos esistenziale che, da sempre, ha animato i nemici della Modernità, i cui tratti essenziali sono la nostalgia della (mitica) purezza perduta, l’attesa spasmodica della purezza futura e la fobia per l’impurità presente, che si manifesta sotto forma di ossessione anticapitalista di cui l’ossessione antiamericana è un sottoprodotto che, per i suoi metodi, per la sua bassezza, per i suoi furori continua a essere quello che Angelo Tasca stigmatizzò come “l’antisemitismo del nostro tempo”.
La natura profondamente e irrimediabilmente reazionaria della demonizzazione del capitalismo risulta con tutta evidenza non appena si riflette sulle tremende condizioni di vita della classi proletarie nelle società pre-industriali: permanentemente assediate dalla fame, costrette a eseguire lavori massacranti, spietatamente colpite dalle malattie endemiche (tubercolosi, sifilide, colera, malaria, vaiolo, eccetera), condannate all’ignoranza più totale e assoggettate alla dura tirannia dei loro dispotici padroni. Ebbene: è proprio grazie alla istituzionalizzazione della sinergia fra scienza, tecnica e Weltmarkt che l’economia ha cessato di essere un gioco a somma negativa e si è trasformato in un gioco a somma positiva; un gioco, cioè, in cui gli enormi profitti degli imprenditori di successo sono accompagnati, di regola, dall’incremento dei salari reali e dalla moltiplicazione delle chance di vita. Per questo Marx ed Engels ritenevano che il capitalismo – a dispetto del fatto che si basava sullo spietato sfruttamento del proletariato industriale e sul disfrenamento delle “furie dell’interesse privato” – costituiva una tappa progressiva della drammatica odissea dell’umanità verso la società comunista. Per la stessa ragione, essi hanno sottolineato con il massimo vigore quello che ritenevano essere il “presupposto pratico assolutamente necessario” della emancipazione dei lavoratori: “un grande incremento della produzione, perché senza di esso si sarebbe generalizzato soltanto la miseria e quindi col bisogno sarebbe ricominciato il conflitto per il necessario e sarebbe ritornata la vecchia merda”, ossia quella tremenda condizione esistenziale che Sartre, “nella Critica della ragione dialettica”, ha magistralmente descritto come “lotta accanita contro la penuria”. C’è di più. Marx non ha avuto esitazione alcuna a giudicare il colonialismo “uno strumento inconscio della storia”, destinato ad assolvere “una doppia missione: una distruttrice, l’altra rigeneratrice: annientare la vecchia società asiatica e porre le fondamenta della società occidentale in Asia”. Il che è quello che sta accadendo grazie alla globalizzazione capitalistica.
Certo, l’iniquità dell’attuale distribuzione della ricchezza mondiale è impressionante: il 50 per cento dei popoli poveri dispone di appena un centesimo della ricchezza, mentre il 10 per cento più abbiente ne possiede 1’85 per cento e 1’1 per cento più ricco il 40. Ma ciò non autorizza a ignorare – come fanno i terzomondisti à la Wallerstein, animati da un solo desiderio: quello di vedere la nostra civiltà sprofondare nel nulla storico – che nel 1950 il 55 per cento della popolazione mondiale viveva con 1 dollaro al giorno; oggi solo il 20 per cento. Ciò è accaduto perché la rivoluzione verde ha avuto uno straordinario successo. Infatti, nei paesi in via di sviluppo, la produzione agricola è triplicata e l’apporto calorico pro capite è aumentato del 38 per cento. Inoltre, la percentuale degli affamati è passata dal 35 al 18 per cento, talché oggi ben 2 miliardi di esseri umani sono usciti dalla “trappola malthusiana”.
Questi dati macroscopici indicano, con la massima evidenza, che il capitalismo non è affatto un “sistema parassitario”, come lo ha definito Zygmunt Bauman. Tutto il contrario: è una macchina di produzione della ricchezza così formidabile da “costringere” Marx a riconoscere “l’enorme funzione civilizzatrice del Capitale” a motivo del fatto che esso “attua una rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della Natura e dello spirito”.

di Luciano Pellicani, autore di “L’Occidente e i suoi nemici”, in uscita in questi giorni per Rubbettino

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