Anna Ascani e la politica dei millenial (Rivistastudio.com)

di Laura Fontana, del 22 Luglio 2019

Anna Ascani

Senza Maestri

Storie di una generazione fragile

La situazione politica italiana, il futuro della generazione dei Millennial, il suo primo libro: conversazione con la vicepresidente del PD.

Anna Ascani, classe 1987, sguardo determinato che fende l’aria; a soli 32 anni è vicepresidente del PD e deputata al suo secondo mandato. Ci incontriamo nella galleria dei Presidenti a Montecitorio, sotto lo sguardo di Nilde Iotti, per parlare del suo ultimo libro appena pubblicato per Rubbettino: Senza Maestri. Storie di una generazione fragile. Ma non è fragilità quella che mostra, bensì caparbietà e sicurezza, come ha mostrato sul palco dell’Assemblea PD della settimana scorsa, dove ha tuonato a Zingaretti che non basta più essere “alternativa”. Dice che ci ha messo tre anni per scrivere questo libro, cancellandolo e riscrivendolo più volte, nel tentativo di definire la sua e la mia generazione, i Millennial, e quindi capire anche sé stessa. Il suo status su WhatsApp è una citazione di Camus che tornerà anche nel libro: «Bisogna immaginare Sisifo felice».

On. Ascani, lei tutto sembra meno che fragile.
A me piace il concetto di fragilità, nella vita si fallisce, si cade, ci si ferisce ma è questo il modo in cui si cresce. Succede a tutti, alla nostra generazione come alle generazioni precedenti. Solo che queste ultime avevano le sovrastrutture di marxista memoria che coprivano le loro debolezze: le grandi ideologie, lo sviluppo economico inarrestabile. Ora è tutto crollato e sta a noi ricostruire un nuovo orizzonte in cui la fragilità esiste ed è un diritto. Di più, è una forza, un superpotere come cantano le Luci della Centrale Elettrica.                                                                                                                                                                              Senza Maestri è più una constatazione o un’accusa?Senza maestri non vuole essere un’espressione arrogante ma una presa d’atto: siamo cresciuti senza maestri. La generazione precedente, quella dei nostri genitori, non ha avuto gli strumenti adatti per prepararci, non ci hanno dato nessuna bussola. Ci hanno trasmesso solo la nostalgia per il passato.

Lei ha nostalgia per il passato?
Per gli antichi la nostalgia era una malattia da curare con le sanguisughe. Comunque la nostra generazione ha il feticcio del passato, siamo nostalgici di musica che non abbiamo ascoltato, di vestiti che non abbiamo indossato, di concerti che non abbiamo visto ma questo è proprio il frutto dell’essere senza maestri. Ci hanno detto che prima si stava meglio, quindi noi invece di essere proiettati sul futuro, stiamo costruendo il futuro sulla nostalgia. Oggi capita pure di assistere che due ragazzi litighino dandosi del comunista e del democristiano. Fa ridere, ma succede.

Eppure, lei nel libro scrive che un maestro ce l’ha avuto, il professore di filosofia del liceo dove ha studiato.                                                                                                                                                         È vero, ma secondo me tutti noi abbiamo incrociato dei maestri, solo che lo sono stati a loro insaputa. Non erano consapevoli di trasmetterci una visione del mondo. Del mio professore di filosofia mi ha colpito la passione con cui faceva il suo mestiere. E poi, con i suoi metodi di insegnamento mi ha insegnato l’empatia. Se eri credente, ti diceva di dimostrare logicamente il punto di vista di un ateo e viceversa. L’esatto contrario di quello che succede oggi sui social network dove ognuno posta il proprio assioma e poi cerca solo conferme, like. Se avessimo avuto più maestri di questo tipo forse noi Millennial vivremmo meglio le questioni interpersonali. Se non si fanno esercizi di empatia la società si disgrega.

Sembra impossibile che la più giovane deputata della storia della Repubblica italiana abbia ancora adesso il sogno segreto di insegnare filosofia nel liceo classico di Città di Castello dove ha studiato. Eppure, lo confessa nel suo libro.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      Mi creda, è vero! Sono cresciuta negli anni del liceo chiedendomi cosa volessi fare da grande, poi tra maturità e università ho capito che volevo insegnare filosofia. Ho cercato di renderlo possibile laureandomi e poi frequentando il TFA: avrei dovuto finirlo se non fossi entrata in Parlamento… alla fine è vera la frase di John Lennon, la vita è quello che accade mentre sei impegnata a fare altri progetti. Poi certo, non a tutti va bene come è andata bene a me. Ma i sogni restano, mica cambiano solo perché la vita ti dà una prospettiva diversa. Io non credo nella politica a tempo indeterminato. Comunque, diventando parlamentare ho realizzato un altro dei miei sogni: diventare calciatrice. Adesso gioco a calcio con la Nazionale parlamentari. Laterale sinistro, giochiamo a calcio a 5. In barba a mia madre che non mi aveva permesso di giocare a calcio da piccola dicendo che mi sarebbero venute le gambe storte.

L’inseguimento del sogno, il pallino della felicità professionale: sono così anche i Millennial di cui racconta nel suo libro. Ma è anche il motivo per cui ci hanno definito choosy. È come se la generazione precedente ci rinfacciasse continuamente qualcosa, di non essere abbastanza umili, di non fare abbastanza.
Sì, sentiamo di aver fallito sia quando riusciamo, sia quando non riusciamo. E questo perché non abbiamo fatto i conti con la fragilità. Io dico che le ferite vanno valorizzate, per questo parlo dell’arte del kintsugi: invece di mascherarci dietro i filtri di Instagram, dovremmo sottolineare le nostre fragilità con l’oro. E poi ben venga il pallino della felicità nella vita professionale. Significa credere di avere un talento che può servire a cambiare le cose che non funzionano nel mondo. I ragazzi che ho intervistato nel libro sono così: giornalisti, ricercatori, fashion blogger, hacker etici. Hanno tutti la percezione di agire su un pezzo di mondo che vogliono vedere diverso. E in questo modo fanno politica, in una maniera molto diversa da quella dei nostri genitori.

Nella sua autobiografia Michelle Obama racconta che a un certo momento il lavoro per cui aveva studiato la rendeva infelice. Confessò questa infelicità alla madre che le rispose «Se vuoi il mio parere prima fai i soldi, poi preoccupati della tua felicità». L’appagamento professionale le appariva un’idea da ricchi.
Ma il lavoro non è solo un modo per mangiare, quest’idea davvero rende precari e frustrati insieme. Nel momento in cui sei precario e in più quella precarietà è semplicemente un modo per portare a casa il pane… allora rischi davvero di diventare “la generazione perduta”. Invece fare un lavoro che, a prescindere da quello che ti viene in tasca, è appagante, è soddisfacente, è qualcosa di cui parlare a tavola la sera, secondo me è positivo. E noi Millennial siamo così: nonostante la crisi economica, politica, dei valori, nonostante questo non rinunciamo ad avere una prospettiva, non rinunciamo a realizzare noi stessi, non rinunciamo a mettere in campo il nostro talento per la comunità.

Sì, ma è anche da qui che viene il nostro disagio generazionale. Lo dice anche Raffaele Alberto Ventura ne La teoria della classe disagiata che lei cita proprio nel suo libro.
Intanto apprezzo moltissimo il libro di Raffaele, un tentativo riuscito di autodefinizione, un po’ come il lavoro di Zerocalcare. Dobbiamo però fare i conti col fatto che la nostra generazione ha un ruolo di cesura. Abbiamo vissuto sulla nostra pelle una serie di cambiamenti incredibili. Siamo i primi ad essere cresciuti coi cartoni animati trasmessi da Mediaset…

I cartoni animati?
Sì, uno dei problemi nel nostro processo di crescita. C’entra anche la Disney.

Cioè?
Siamo cresciuti con l’idea dell’eroe, di uno che arriva e risolve i problemi. Ecco che si spiega il successo dei vari capitani, di Berlusconi. Ma ovviamente non è solo questo, il cambiamento pazzesco che abbiamo vissuto è quello dell’avvento dei pc, di internet, dei social network che hanno cambiato tutti, in primis la nostra comunicazione interpersonale. E queste cose non ce le siamo trovate dopo, le abbiamo vissute durante. Siamo una generazione-esperimento. Una generazione che deve trovare un nuovo modo di fare politica. Dobbiamo tirar fuori delle figure che capiscano il nostro tempo, che non si sentano supereroi, che si assumano la responsabilità per un periodo di tempo definito mettendo il proprio talento al servizio della comunità. Secondo me, di persone così ce ne sono tante ma non si mettono in campo perché vedono i luoghi della politica molto distanti da loro. È uno dei problemi del Partito Democratico: fa fatica a essere comprensibile alla nostra generazione. Per questo dobbiamo dare le chiavi della politica ai Millennial, possibilmente non a quelli presi dalla strada, sennò ci troviamo gente come Luigi di Maio vicepremier.

Quali sono quindi i pilastri su cui deve puntare il Partito Democratico per aprirsi, rendersi comprensibile?
Il primo è la scuola o meglio il diritto allo studio. È devastante che nel 2019 pesi sulla riuscita scolastica la provenienza familiare. Il centrosinistra deve occuparsi dell’istruzione dei figli di famiglie in difficoltà. Secondo: la salute e l’attenzione alla fragilità di una società che invecchia. Non disperdere il patrimonio degli anziani come vorrebbe fare la società dello scarto. Terzo ma forse primo: il lavoro. Bisogna trovare nuove regole adatte al mondo di oggi, altrimenti rischiamo di trovarci schiacciati. Per fare questo c’è bisogno di coinvolgere datori di lavoro e sindacati, svecchiare la classe dirigente, tematizzare la questione del tempo libero.

Senta, com’è il suo rapporto coi social media? Si sente l’Alexandria Ocasio-Cortez del Partito democratico?
Lei è una figura straordinaria anche per la sua storia personale. Crea empatia ed è molto brava a comunicare. A prescindere da alcune sue posizioni che non condivido, dobbiamo tutti imparare il suo modo di comunicare. Ecco cosa dobbiamo trasmettere: che siamo essere umani impegnati a prestare i propri talenti alla comunità. Certo, sui social… quando ti esponi sai che arriverà l’hater, ti farà body-shaming, minaccerà i tuoi genitori… sono per carattere una persona che fa fatica ad aprirsi completamente nella vita personale. Ma so che senza questo tipo di esposizione umana la politica sarà sempre più distante da noi. Dobbiamo quindi essere pronti ad affrontare i social.

A un certo momento ha definito i Millennial “resilienti”. Lo sa che Gianluca Vacchi ce l’ha tatuata sul petto questa parola?                                                                                                                        Oddio, non sapevo del tatuaggio di Gianluca Vacchi altrimenti avrei trovato un sinonimo. Adesso mi toccherà riscrivere una seconda versione del libro! Comunque, per me essere resilienti è proprio l’ostinarsi a cercare un appagamento, cercare un futuro anche se siamo in mezzo alla crisi e a scenari apocalittici. A sentire gli altri, dovremmo tutti essere depressi e frustrati, punto! Poi vai a vedere e non è così. È perché siamo resilienti, riabilitiamola questa parola. Più resilienza, meno tatuaggi!

L’ultima domanda è su Matteo Renzi, che ha scritto la prefazione del suo libro. Pure se non rientra nel range che definisce i Millennial un po’ lo sembra pure lui…
Matteo Renzi riesce a mettere insieme la politica e la vita privata, la politica… con una finale di tennis, la politica e le vacanze in montagna, la politica e la vita coi figli. Insomma, lui fa politica a 360 gradi. Inoltre, ha percepito sulla sua pelle l’essere considerato un eroe salvifico per poi essere gettato via come se fosse un incapace, una persona inutile. Lui non è né l’eroe, né l’incapace. È una persona straordinaria, capace di pensiero laterale e creativo. Ha fatto quello che i Millennial dovrebbero fare in politica.            

Renzi ha intenzione di tornare?                                                                                                                                                                                                                                                                                    Spero di sì, ha 45 anni mica 90. Spero cambi la percezione nei suoi confronti. Averlo idealizzato è stato un errore, non ha cambiato tutto, certo, però in tre anni ha cambiato un sacco di cose. E poi sta lavorando per formare la classe politica del futuro. Come Obama, vuole passare il testimone e trovare nuove personalità politiche fuori dai circoli. Prepararli al compito di rinnovare il mondo. Un compito che tocca comunque ai Millennial, a me, a noi.

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