Andrea Minuz sulle nobili tracce del Fellini «politico» (Giornale di Brescia)

del 8 Luglio 2013

Dal Giornale di Brescia del 6 luglio 2013

Tra nostalgie, ricordi, aneddoti, simboli, macchiette Federico Fellini amava fare dei propri film – tra soggettivo privato e oggettivo pubblicostoria di sé, specchio di storia degli altri. Quello del regista nativo dì Rimini era un bisogno morale di accoppiare alla visione degli uomini il giudizio sugli uomini, con la segreta ambizione di essere interprete indiretto, per via d’arte, di umori, crisi, inquietudini delle generazioni a lui contemporanee, In questa prospettiva Andrea Minuz, con ricchezza di citazioni abilmente tratte da interviste, libri, giornali, riviste, inediti d’archivio, privilegia e approfondisce una lettura «politica» del cinema felliniano. Questa, dunque, la prospettiva dalla quale muove «Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico», volume edito da Rubbettino. 

Magari, quella felliniana, è una caratura politica che per la prima volta compare esplicita con «Amarcord», dove da approcci autobiografici con una sorta di «patriottismo alla rovescia», il discorso incide bisturi per schizzarne una «mitografia della nazione». Ma sono segni forti di «ideologia italiana» anche «I vitelloni» per quella «rilassatezza» nello stile di vita che diventa – alla fine – «inferiorità» di costume rispetto a come si vive altrove; e, del resto, accade così anche con «La strada», quantomeno per il modo con cui del nostro Paese il film evoca «un’atmosfera sospesa tra realismo magico e documentario etnografico». Discorso simile va fatto poi per «La dolce vita», di riflesso a cronache rotocalchesche caleidoscopica vetrina di nostri archetipi culturali, «la Chiesa cattolica, il mito di Roma e quello del “borgo natio”, Mussolini, Casanova, Pinocchio».

Per quanto riguarda la Capitale, nel cinemafelliniano vissuta come spettacolo, è coloratissimo affresco «Roma» nella sua «dimensione fantasmatica» di una mitologia analoga alla romanità mussoliniana, che prima di riflettersi anche in quel «vitellone fascista» che è «Casanova», pietrifica immaginario nella Roma pagana e decadente dei «Satyricon». In ogni caso, restano di inquietante attualità sia «Prova d’orchestra», emblematico e «graffiante catalogo della volgarità televisiva» sia quei film

di «nefaste profezie» che da «Ginger e Fred»- pellicola così sottilmente antiberlusconiana – approdano malinconicamente testamentarie a «La voce della luna».

di Alberto Pesce

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